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Né apocalisse, né difesa di un mondo che va in pezzi. La diplomazia di Francesco

Il nuovo libro di padre Antonio Spadaro, L’atlante di Francesco, sa portarci subito al cuore delle scelte decisive in politica internazionale di un papato che non si rassegna. Non si rassegna né all’apocalisse né al fortilizio. La riflessione di Riccardo Cristiano

Definito da molti quasi in automatico “giornale paludato”, l’Osservatore Romano un po’ di tempo fa si è chiesto, commentando un libro di padre Antonio Spadaro: “Quando trova il tempo per dormire il padre Spadaro?”.

La domanda ha un fondamento, ma più che il sonno del padre è la prontezza a cogliere dei figli il punto importante. Molto spesso padre Spadaro, benché sia direttore de La Civiltà Cattolica, rivista connessa alla segreteria di Stato vaticana e quindi a qualche pastoia dalla “quasi ufficialità”, ci aiuta a entrare in questo pontificato con l’arte della mescolanza: dei temi trattati, dei linguaggi usati, creando uno spazio che io avverto come “meticcio”, almeno nei linguaggi.

Questa volta non è così: il suo volume “L’atlante di Francesco” tratta in stile propriamente teologico e diplomatico di quel che dice il sottotitolo: “Vaticano e politica internazionale” (Marsilio-Universale Economica Feltrinelli). È un libro importante nel tempo che viviamo, mi permetterei di dire “molto importante”, perché sa portarci subito al cuore delle scelte decisive in politica internazionale di un papato che, dico a parole mie, non si rassegna. Non si rassegna né all’apocalisse né al fortilizio. Poi, spiegato questo, ci squaderna i tanti fili che Francesco ha intrecciato in questo suo impegno teologico-diplomatico decennale. Siccome è impossibile parlare di tutto, io starei al punto decisivo, quello di partenza, e alla sorprendete evidenza che l’autore ci presenta un bel po’ dopo: il papa non è un pacifista. È evidente che non sia un pacifista, ma bisogna capire perché non lo sia un pacifista e cosa sarebbe il pacifismo.

Comincia dall’inizio, una presentazione metodologica, cruciale. Qui il rapporto tra trono e altare, papa e impero romano, è ineludibile. Tutto comincia con la lettera di San Paolo ai tessalonicesi, dove entra una strana figura, che gli addetti ai lavori chiamano con il suo nome greco, in modo che nessuno capisca e la discussione rimanga tra loro. È colui che contiene , frena. Cosa frena costui? Frena l’assalto dell’Anticristo, impedisce l’apertura dei vasi che contengono i mali del mondo e che porteranno alla fine del mondo, all’apocalisse. Per alcuni padri della Chiesa questa forza frenante era l’impero romano, La sua potestà amministrativa che teneva unito il mondo andava unita ad un’autorità spirituale. Caduto l’impero l’erede naturale era la Chiesa. Oggi la situazione è proprio cambiata, e dunque sembra aprirsi davanti a noi un bivio, come sempre senza alternative: basta frenare, bisogna spingere sull’acceleratore e favorire la fine del mondo con armate compatte, fedeli e omogenee, in modo da avvicinare la successiva vittoria del Bene, il Regno di Dio. Sicuri che non ci sia una terza via?

Devo confessare che trovo questa espressione, “terza via”, bellissima. E non solo perché per formazione sono attirato dal terzaforzismo, ma perché trovo nell’idea di terza via un rifiuto degli opposti estremismi, della polarizzazione, che impedisce di capire, Francesco direbbe di discernere, un vocabolo che dovremmo studiare nella sua accezione religiosa ma anche “laica”.

La terza via di Francesco tra spingere il mondo verso l’apocalisse o chiudersi a riccio davanti al male è quella di neutralizzarlo: “Non cerca di eliminare il male, perché sa che è impossibile. Semplicemente esso si sposterebbe e si manifesterebbe altrove, in altre forme”. Ecco allora un papa che rischia e non viene capito: da chi lo accusa di venire a patti col mondo (vedendolo cedevole con Putin o con la Cina) mentre lui piccona l’establishment (mondiale ed ecclesiale), ma anche da chi lo apprezza perché sempre misericordioso, mentre lui dice che la corruzione “spuzza”.

C’è in questo poco di teologico e di evangelico? Non è Gesù che ha accolto la peccatrice e buttato per aria i banchetti dei cambiavalute? Scegliere questa terza via è faticoso, richiede tempi lunghi, sforzi di comprensione reciproca, ma soprattutto non offrire puntelli a nessun potere che glielo chiede, ma resistenza alla polarizzazione dilagante. Qui Spadaro, opportunamente, ricorda la frase “scandalosa” sui terroristi: “Povera gente criminale”. Io direi che Francesco sa che intorno al terrorismo, e non solo intorno a quello, c’è un pantano, o forse una cloaca oscura nella quale ogni perversione o complotto è possibile. Per questo sa rendere forte e credibile, per chi sia disposto a seguire il filo del ragionamento religioso ma anche umano, l’“amore per il nemico”. Portando San Francesco sul trono di San Pietro rifiuta di incoronare altri “defensor fidei”, perché l’autorità a cui guarda non è quella imperiale, ma quella paterna. A me sembra che in questo senso il discorso sulle radici cristiane dell’Europa indichi la strada di rivendicarle con i comportamenti, non con le citazioni.

Dunque il rapporto con gli altri presuppone scelte su se stessi. Dicendo no a un legame organico tra cultura, politica istituzioni e Chiesa, si volta pagina rispetto non solo a Costantino ma anche a Carlo Magno. Perché? “Perché si rifiuta radicalmente l’idea dell’attuazione del Regno di Dio sulla terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e di tutte le forme politiche e istituzionali similari fino alla dimensione di partito”. Dunque Francesco non accelera la fine, non vagheggia un mondo nuovo, e non “trattiene i tasselli di un mondo che sta andando in pezzi”. Piuttosto ci ricorda che siamo figli, siamo tutti fratelli. Ecco perché non è un pacifista.

Francesco sa che “la conflittualità è un elemento caratteristico della natura umana, quindi l’uomo deve sempre affrontare il conflitto: è un fattore ineliminabile della dinamica dei rapporti umani e quindi anche di quelli internazionali”. E dopo aver ricordato passaggi importanti del pontificato nei quali ha indicato conflitti di interesse, padre Spadaro ci apre gli occhi sul punto decisivo: “La sua esperienza e la sua intelligenza nell’analizzare la storia impediscono a Bergoglio di essere un pacifista astratto e ideologico. Il conflitto è ineliminabile […]. Anzi, la stessa pace comporta una vera e propria lotta. La pace, per Bergoglio, significa un concreto agire sui quadranti più delicati della politica internazionale in nome degli scartati, dei più deboli. […] Francesco non intende, dunque, proporre una pace intesa come tranquillità, a costo di far calare il silenzio sulle ingiustizie e la difesa dei poveri”. La pace per lui nasce dal desiderio di risolvere le cause strutturali della povertà che generano esclusione e violenza. Questo è un lavoro, non finisce in se stesso, ma ne richiede altri, come il “desiderio di andare oltre i torti e le ferite del passato, di creare comunione con tutti, senza mai cedere alla tentazione di isolarsi e di imporsi”. Questa indicazione, oggi, con quello che accade, parla a tutti.

Qui diviene, di conseguenza, decisivo il discorso sulla riconciliazione, che anche Francesco cita sempre. Ma che cos’è questa riconciliazione? “Il papa ritiene che la vera riconciliazione non rifugge dal conflitto, ma si ottiene nel conflitto, superandolo attraverso il dialogo e la trattativa trasparente, sincera e paziente. D’altra parte il perdono non ha nulla a che fare col rinunciare ai propri diritti davanti a un potente corrotto, a un criminale o a qualcuno che degrada la nostra dignità. Perdonare non vuol dire permettere che gli oppressori continuino a calpestare la propria dignità e altrui, o lasciare che un delinquente continui a delinquere. Inoltre – scrive citando Francesco – da chi ha sofferto molto in modo ingiusto e crudele, non si deve esigere una specie di perdono sociale. La riconciliazione è un fatto personale, e nessuno può imporla”.

Nel volume ovviamente c’è molto altro, altrettanto importante. Forse ci sarà occasione per tornarci.



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