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Sulla (giusta) riforma francese ci guadagna Le Pen. L’analisi di Ceccanti

Secondo il costituzionalista la riforma delle pensioni “era necessaria: il sistema precedente era insostenibile”. L’opposizione ha “ottenuto il miglior risultato possibile: ha scaricato su Macron e Borne l’incombenza di questa riforma, fiaccando governo e presidenza”

I disordini d’Oltralpe si consumano sulla riforma del sistema pensionistico. Al di là delle violente manifestazioni tra Parigi e il resto della Francia, i dati politici che emergono dopo l’approvazione della riforma e la mancata sfiducia al Governo, sono due: l’esecutivo di Elisabeth Borne è logorato (sorte che condivide con la presidenza di Emmanuel Macron), mentre il Rassemblement National “si rafforza e raggiunge il suo scopo”. I gollisti sono sempre più spaccati e la linea dettata da Eric Ciotti è stata sostanzialmente disattesa. Ma, nella sostanza che cosa cambia ora in Francia? Per approfondire questo punto abbiamo chiesto un parere al costituzionalista, già deputato del Pd, Stefano Ceccanti.

Ceccanti, partiamo dal dato più evidente della riforma che alza da 62 a 64 anni l’età pensionabile. Era, a suo giudizio, una priorità adottare questo provvedimento?

Sì, il nodo era approvare una legge che fosse compatibile con l’attuale contesto economico e demografico della Francia. In precedenza, sulle pensioni, il Paese aveva un sistema pensionistico valido in condizioni di contesto che ora non sussistono più. Era venuta a mancare la sostenibilità del sistema precedente. In fondo, i partiti di opposizione sono stati contenti che questa legge sia ricaduta sulle spalle dell’attuale presidenza e dell’attuale esecutivo.

Come si spiegano allora le aspre contrapposizioni in Aula e l’esplosione delle proteste in tutto il Paese?

Il Rassemblement National, essendo il partito (ormai l’unico) più strutturato sul territorio, è quello che ne esce senz’altro più rafforzato da questa operazione di logoramento di Macron e Borne. L’obiettivo delle opposizioni era quello non di far cadere il governo, ma di logorarlo. È il miglior risultato per le opposizioni. Senza contare che Macron non è più ricandidabile e la sua forza elettorale è in esaurimento.

Restano gli scontri di piazza. 

È abbastanza fisiologico che si creino delle tensioni quando, attraverso un provvedimento normativo, si sottraggono delle prerogative a un gruppo chiaramente identificabile e i benefici non si sa bene verso chi ricadranno. Ma per un governo politico è sempre complesso intervenire su questi fronti delicati.

Ricorda tanto un parallelismo con l’Italia. 

In effetti gli interventi più significativi al sistema pensionistico, infatti, sono stati fatti da due esecutivi tecnici. Prima quello guidato da Lamberto Dini poi quello guidato da Mario Monti. È un nodo di sistema non banale.

Tante critiche sono arrivate per il ricorso, da parte di Macron, all’articolo 49.3 della Costituzione (niente voto della legge che si dà per approvata a meno che i deputati non votino la sfiducia all’esecutivo). 

Sono polemiche ipocrite, specie da parte della sinistra. Nella legislatura tra l’88 e il ’93 tutte le finanziarie passarono grazie al ricorso al 49.3. La verità è che quell’articolo, con un governo di minoranza come questo, è l’unico che garantisce al governo di poter continuare a esercitare le sue prerogative.

Nel frattempo, anche in Spagna Vox ha presentato una mozione di sfiducia contro Pedro Sanchez. 

Sì, ma mentre la strategia dell’opposizione francese ha una sua razionalità e l’obiettivo ben preciso di “ammaccare” il governo, indebolendo ancor di più la presidenza di Macron, le opposizioni in Spagna stanno portando avanti un’operazione totalmente priva di senso. Anzi, Sanchez ne uscirà rafforzato.

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