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Per evitare nuove crisi occorre completare l’Unione bancaria. Polillo spiega perché

La Germania ha recentemente proposto di consentire aiuti di Stato per far fronte alle eventuali crisi bancarie. Una soluzione che può andar bene per quei Paesi che hanno finanze pubbliche solide. Molto meno per quelli afflitti da un alto debito. Ecco perché per Gianfranco Polillo la strada è un’altra

Quali insegnamenti trarre dall’insorgere delle prime crisi bancarie, che hanno scosso le principali borse occidentali e fatto temere il peggio? Riflessione doverosa, viste le incertezze che ancora permangono ed il rischio di una loro recrudescenza. Al momento le risposte sono state diverse a secondo della latitudine dei vari interventi.

In California, la crisi della Svb (Silicon Valley Bank) è stata circoscritta grazie ad un forte intervento della Fed. Il Tesoro americano, com’è noto, ha approntato un fondo (Bank Term Funding Program) di 25 miliardi di dollari. Sarà utilizzato per finanziare le banche che hanno acquistato, in passato, T-bond e che ora, a causa delle mutate condizioni della politica monetaria, si sono deprezzati, generando forti perdite nei relativi bilanci. Questi stessi titoli saranno ora utilizzati come collaterale per i prestiti ottenuti.

E valutati dal Fondo non al loro valore effettivo, ma a quello nominale. Il risultato dell’operazione sarà pertanto quello di consentire la ricostituzione della liquidità necessaria, anticipando di fatto il rimborso del titolo, a prezzo pieno, come se fosse giunto alla sua scadenza naturale. La seconda misura è stata quella di estendere la copertura assicurativa a tutti i depositi, superando le precedenti limitazioni: un tetto massimo pari a 250 mila dollari.

Entrambe le operazioni richiederanno un aumento della liquidità di sistema, necessaria per far fronte agli impegni sopravvenuti. Con un effetto diretto sugli sviluppi della politica monetaria, che non potrà avere quel carattere stringente, che, in precedenza, era stato immaginato. Il che spiega il ripensamento da parte della FED, costretta a dimezzare lo scalino – dallo 0,5 allo 0,25 per cento – nella fissazione dei nuovi tassi d’interesse.

Nel caso della Svizzera, invece, la politica monetaria non ha risentito o risentito molto meno delle vicende legate al Credit Suisse. In questo caso, infatti, il problema è stato risolto dall’intervento di UBS, che ha acquistato la prima, per 3,28 miliardi di franchi. L’intervento pubblico ha comunque accompagnato l’operazione. La Banca nazionale svizzera ha aperto una linea di credito in favore di UBS pari a 50,5 miliardi di euro ed una garanzia per le future perdite, pari a 9 miliardi.

Somma quest’ultima che il Governo centrale ha accresciuto di ulteriori 5 miliardi. In precedenza, con un intervento legislativo fulmineo erano state modificate le regole relative alle risoluzioni bancarie, scaricando l’onere del fallimento non sugli azionisti, che, al contrario, riceveranno i 3,28 miliardi di franchi; ma sui possessori delle obbligazioni Additional Tier 1 (AT1). Il cui valore, per un importo pari a 16 miliardi, è stato azzerato.

In compenso l’incidenza di queste misure sugli sviluppi della politica monetaria è stata trascurabile. La Banca nazionale svizzera ha aumentato, come previsto, di 50 punti base il tasso d’interesse, portandolo all’1,5 per cento. Un valore decisamente più basso rispetto all’Europa (3,5 per cento), per non parlare degli stessi Stati Uniti (4,75 per cento). Evidenti allora le differenze. Nel primo caso la crisi di Svb ha imposto un ripensamento, in senso più espansivo, della politica monetaria. Nel secondo – crisi di Credit Suisse – invece quest’ultima ha seguito il suo corso “normale”, senza alcuna interferenza. Un bene o un male?

La risposta è intuitiva. Nessuna politica contraddittoria può essere migliore di quella coerente e lineare. Il compito prevalente della politica monetaria è quello di garantire la stabilità del quadro finanziario. Al fine di favorire gli scambi e le dinamiche di sviluppo. Non può quindi farsi carico di altri problemi, come potrebbero essere i salvataggi bancari o la monetizzazione del debito. Supplenze destinate ad avere dei costi “particolari”, destinati, comunque, a scaricarsi sull’intera collettività. Chi pagherà negli USA per i finanziamenti agevolati, rispetto alle condizioni di mercato, concessi alle banche in crisi di liquidità? Non siamo, anche in questo caso, di fronte ad una socializzazione delle perdite?

Naturalmente ciò non significa che le banche in crisi dovessero essere abbandonate al loro destino. Ma solo che andavano ricercate le soluzioni migliori affinché la risoluzione avvenisse ai minori costi sociali possibili. Obiettivo che può essere raggiunto solo seguendo, per così dire, “la logica specifica dell’oggetto specifico”. La ricerca, cioè, dello strumento più adatto da utilizzare, nel quadro più complessivo dei diversi ingredienti che caratterizzano la politica economica: considerati nella loro specificità e complementarità. Vale a dire: la stessa politica monetaria, quella fiscale ed infine le regole della costituenda Unione bancaria.

Degli inconvenienti che si sono verificati nelle forzature della politica monetaria, sperimentata dalla Fed americana, si è già detto. Resta allora da vedere in che modo si poteva intervenire con la politica fiscale. Anche se i relativi margini sono alquanto stretti. Il nuovo Patto di stabilità e crescita è ancora in gestazione. La crescente importanza da attribuire alla procedura degli squilibri macroeconomici ne riduce ancora di più gli spazi. Meglio sarebbe non mettere troppa carne al fuoco. La Germania ha recentemente proposto di consentire aiuti di Stato per far fronte alle eventuali crisi bancarie. Una soluzione che può andar bene per quei Paesi che hanno finanze pubbliche solide. Molto meno per quelli afflitti da un alto debito.

Ed allora la via maestra sembrerebbe coincidere con le nuove regole dell’Unione bancaria, il cui completamento si è arrestato di fronte al rifiuto tedesco di giungere ad una copertura assicurativa europea dei depositi bancari (Edis European Deposit Insurance Scheme), ed al No italiano nei confronti del Mes (Meccanismo europeo di stabilità). Opposizione, quest’ultima, che ha una lunga storia passata, anche motivata, ma che oggi va quanto meno rimeditata. Tenendo anche conto del fatto che i due problemi (assicurazione europea e Mes) dovrebbero trovare una soluzione contestuale. Così, almeno, secondo quanto lasciato intravedere dalla stessa Giorgia Meloni.

Che cos’è cambiato rispetto al passato, per giustificare una rinnovata centralità dell’Unione bancaria? Soprattutto gli assi della politica monetaria. Allora l’enorme liquidità immessa nel mercato aveva portato ad una monetizzazione del debito, rendendo del tutto superflua l’ipotesi di un intervento del Mes. Che, tra l’altro, non godeva di una buona reputazione, essendo ritenuto, a torto o ragione, responsabile della politica “lacrime e sangue” imposta alla Grecia.

Stimma che aveva favorito il ruolo di supplenza della Bce, rendendo possibile il suo continuato acquisto di titoli di Stato sul “secondario”. In una dimensione inusitata. In Italia, tanto per citare un dato, il debito sterilizzato, grazie alla Bce, aveva raggiunto la soglia dei 716 (dicembre 2022) miliardi di euro. Quasi il 26 per cento del debito complessivo. Titoli che, in prospettiva, andranno progressivamente dismessi, complicando ulteriormente, in una sorta di legge del contrappasso, la futura gestione del debito pubblico.

In quello stesso periodo il Mes era visto, soprattutto, come un orpello della politica fiscale. Il suo intervento legittimato da eventuali squilibri macroeconomici o temporanee difficoltà di natura finanziaria. Del tutto trascurata era invece la sua altra funzione: quella di essere un backstop, una rete di sicurezza, nel caso di risoluzione bancaria. In questa seconda eventualità, infatti, il Mes avrebbe potuto garantire specifici finanziamenti a tasso agevolato, al fine di favorire i necessari processi di ristrutturazione. Senza pesare sulla Bce e quindi incidere sulla politica monetaria. Ma utilizzando, come provvista finanziaria, il credito di cui gode sui mercati internazionali.

Queste quindi le differenze, destinate a risaltare nel momento in cui la politica monetaria si disloca su fronti diametralmente opposti, passando dalla permissività degli anni passati, alla stretta necessaria per ricondurre l’inflazione entro i parametri del 2 per cento. Cambiamento tutt’altro che indolore, come già si è visto, da non rendere, tuttavia, ancora più sanguinoso a causa dell’uso improprio di strumenti, che mal si adattano alla bisogna. Ma gli unici a disposizione di fronte a quel doppio diniego (tedesco ed italiano) che dell’Unione bancaria ha bloccato il completamento.

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