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Gli scontri di Firenze e il mito del fascismo. La riflessione di Polillo

Di fronte a qualsiasi episodio di violenza, la risposta deve essere quella di una gelida condanna. Senza alcun infiocchettamento con aulici riferimenti a una storia che, dopo il tempo di Gramsci, si è risolta in quel drammatico fallimento, che molti “partigiani” non riescono ancora a vedere. Il commento di Gianfranco Polillo

Nella famosa lettera di Annalisa Savino, la dirigente scolastica che ha provocato l’incauta reazione del ministro Giuseppe Valditara, si afferma che “il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti.” Naturalmente si tratta di una sciocchezza, di un’interpretazione puramente strumentale. Costruita, cioè, solo per enfatizzare quanto era avvenuto davanti al liceo Michelangelo di Firenze.

Il fascismo non fu la conseguenza di una semplice scazzottata ai “bordi di un marciapiede”. Al contrario fu un fenomeno estremamente complesso, tragico nella sua dimensione e nella sua autodistruzione, e, per questo motivo, difficilmente replicabile. Alla base di tutto vi fu la carneficina della Grande guerra. Quell’”inutile strage”, come disse papa Benedetto XV, che non poteva rimanere senza conseguenze. E, infatti, tutti i Paesi belligeranti, chi più chi meno (ma soprattutto la Russia, la Germania e l’Italia), ne subirono i contraccolpi più rilevanti.

Nella Russia zarista, fu il trionfo di Lenin. Fino ad allora in minoranza nel gruppo dei bolscevichi, ne conquistò la leadership con la parola d’ordine “guerra alla guerra”. Che, sul piano dell’organizzazione politica portò alla rivendicazione di “tutto il potere ai soviet”, proprio al fine di trasformare una guerra di tipo imperialista in un processo rivoluzionario. All’indomani della conquista del potere, i bolscevichi, in coerenza con l’impegno assunto, negoziarono con gli Imperi centrali la pace di Brest-Litovsk. Una “pace vergognosa”, come disse lo stesso Lenin, ma necessaria. Che amputò di circa un terzo (perdita dei Paesi Baltici, Finlandia, Polonia, parte della Bielorussia, indipendenza dell’Ucraina) il vecchio impero russo. E che oggi Putin vorrebbe riconquistare.

In Italia la guerra aveva travolto i più vecchi equilibri politici. Lo stesso Benito Mussolini, che nel periodo giolittiano (1903-14), era stato un socialista massimalista, fino a divenire direttore dell’Avanti, aveva abbandonato il partito per divenire interventista. Un travaglio lungo e faticoso, che era iniziato nel 1914 con il suo editoriale, proprio sull’Avanti, dal titolo “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante”. Mentre il partito socialista era ormai orientato a favore di Costantino Lazzari, che ne era il segretario, nonché il teorico della famosa formula “né aderire né sabotare”.

Alla fine della guerra, seguì poi la Conferenza di pace di Parigi, in cui l’Italia, benché tra coloro che avevano vinto la guerra, ebbe un ruolo marginale. Per carità nessun parallelismo con la situazione europea attuale. Da qui il mito della “vittoria mutilata” mentre nel 1920 esplodeva il “biennio rosso”. Il tentativo cioè di “fare come in Russia”. Solo un anno prima in Germania il fallimento della rivoluzione spartachista aveva portato all’uccisione di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. I principali esponenti del Partito Comunista di Germania.

Questi soli alcuni cenni delle immani tragedie di quel periodo. Che qualcuno vorrebbe cancellare con un tratto di penna. Come se da allora non fossero passati più di cento anni. Il fenomeno della violenza politica, che comunque esiste e va combattuto, richiede pertanto analisi specifiche per capirne la portata e neutralizzarne le spinte distruttive. Fascismo ed antifascismo c’entrano poco. Si tratta, nelle migliori delle ipotesi, di ultras della politica. Guidati ed orientati da “falsi maestri”, che, alimentando la faziosità, perseguono fini oscuri. Che poco hanno a che vedere con le stesse parole d’ordine di cui si riempiono la bocca.

A dimostrazione di questo teorema basta analizzare le conseguenze di quegli avvenimenti. La successiva manifestazione di Firenze ha dato vita ad un confuso rassemblement di tutta la sinistra italiana. In cui i principali leader – Schlein, Conte e Landini – hanno compiuto i primi passi, nella ricerca di un possibile accordo non rivolto al futuro, ma nel ricordo di un lontano passato. Durante il corteo, la stessa dirigente scolastica, autrice della lettera, si è pavoneggiata dietro un cartello in cui si leggeva: “io non sono indifferente”. Concetto già espresso nella sua missiva, tratto da uno famoso articolo di Antonio Gramsci, per “La città futura” e su cui vale la pena soffermarsi.

L’articolo, ma l’intera rivista in cui lo stesso fu pubblicato, era rivolto essenzialmente ai giovani socialisti, per spronarli ad agire. L’articolo è dell’11 febbraio del 1917. Sullo sfondo le drammatiche vicende della situazione russa, che porterà di lì a poco alla “rivoluzione di febbraio” che provocò l’abdicazione dell’imperatore Nicola II, la fine della dinastia dei Romanov, dell’Impero russo e dell’autocrazia. Un passaggio intermedio, prima della rivoluzione d’ottobre che porterà al trionfo del comunismo.

Ebbene Gramsci, nel suo articolo non condanna solo l’indifferenza. Subito dopo aggiunge: “Credo che vivere voglia dire essere partigiani”. Che allora significava essere compartecipi delle sorti del movimento operaio, in un momento in cui la storia dell’umanità era in procinto di subire un cambiamento radicale. Segnato non solo dalle vicende della rivoluzione russa ed il diffondersi del leninismo, ma dall’entrata in guerra degli Stati Uniti e quindi dalla successiva sconfitta degli Imperi centrali. Con tutto quello che quella svolta avrebbe comportato.

Può essere ancora oggi la “partigianeria” il richiamo per le più giovani leve? Francamente ne dubitiamo. Questo concetto è intimamente legato al senso di una militanza che fu caratteristica esclusiva del “secolo breve”. Che oggi non può rivivere, senza far correre il rischio di riprodurre, come negli “anni di piombo”, quei lutti e quelle tragedie che hanno insanguinato il Paese. Ecco perché aver cercato di eccitare gli animi è sbagliato. Di fronte a qualsiasi episodio di violenza, la risposta deve essere quella di una gelida condanna. Senza alcun infiocchettamento con aulici riferimenti ad una storia che, dopo il tempo di Gramsci, si è risolta in quel drammatico fallimento, che molti “partigiani” non riescono ancora a vedere.

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