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Se gli aiuti Onu per i siriani aiutano il regime, non la popolazione

Partendo dalla figlia di Houssam Louka – il potente capo dell’intelligence generale di Assad sottoposto a sanzioni internazionali per gravi violazioni dei diritti umani – che lavora per un’agenzia dell’Onu a Damasco, e che in precedenza aveva lavorato per la Croce Rossa, il Financial Times ha condotto un’inchiesta che porterebbe a frequenti incursioni di gerarchi del regime per imporre l’assunzione di loro parenti e il dilemma che i funzionari Onu si sono trovati a dover fronteggiare

Le aree terremotate del nord della Siria che non sono amministrativamente e militarmente sotto il controllo del regime di Assad hanno prima visto gli aiuti internazionali arrivare proprio con il contagocce per un presunto danneggiamento del valico utilizzato dalle Nazioni Unite per aiutare i quattro milioni di siriani deportati dal regime dalle loro case, spesso non distante da Damasco, in quel remoto angolo del non siriano, e poi hanno dovuto attendere otto giorni (otto giorno per chi sta sotto le macerie sono un’eternità) prima che il regime desse il suo placet alla decisione del segretario generale dell’Onu di utilizzare gli altri valichi terrestri dalla Turchia, un tempo usati dalle Nazioni Unite e poi chiusi per il veto russo, su richiesta siriana. Perché a loro parere tutti gli aiuti devono passare dalla capitale: anche quelli indirizzati a zone che l’amministrazione centrale non controlla. Qualcuno, pochi in verità, si è chiesto come mai.

Oggi il tema è trattato dal Financial Times in questo articolo. La risposta che sembra emergere è peggiore della domanda. Infatti, come si legge chiaramente, il fatto stesso che la figlia di Houssam Louka – il potente capo dell’intelligence generale di Assad sottoposto a sanzioni internazionali dall’Europa, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna per le gravi violazioni dei diritti umani che ha commesso nella sua attività – lavori per un’agenzia dell’Onu a Damasco, Un Cerf, incaricata dell’intervento rapido in caso di disastro naturale o conflitto armato, aiuta a farsi un’idea. Siccome lei, poco più ventenne, non ha fatto nulla di male, il quotidiano e il portavoce dell’Onu non ne hanno fatto il nome. Ma è comunque emerso che già in precedenza aveva lavorato per la Croce Rossa. La Croce Rossa ha confermato, ma ha tenuto a specificare che la giovane donna durante il suo lavoro non ha potuto entrare in possesso di dati sensibili, cioè dell’identità di persone assistite dalla Croce Rossa. Lo scrupolo della Croce Rossa è apprezzabile, ma perché mettersi dentro casa una persona che si deve accuratamente evitare che entri in possesso di dati sensibili, quale è la figlia di un capo di intelligence siriana, sanzionato da mezzo mondo per violazioni dei diritti umani, che in Siria sappiamo corrispondere ad atrocità?

Fonti citate dal Financial Times spiegano che non siamo davanti a un’eccezione, ma a quella che sembra una regola: si parla di frequenti incursioni di gerarchi del regime per imporre l’assunzione di loro parenti. Come era noto da tempo, per quanto si parli molto delle sanzioni che affliggerebbero la Siria e ridurrebbero i soccorsi, le Nazioni Unite provvedono diversi milioni di dollari l’anno al “legittimo governo di Damasco” per il soggiorno dei propri dipendenti al lussuosissimo Hotel Four Season di Damasco, di proprietà di un uomo d’affari molto vicino al regime. Ora sappiamo, grazie al Financial Times, quanto ha speso l’Onu per questi pernotti dal 2014 a oggi: 81,6 milioni di dollari. Così sorprende meno la decisione statunitense ed europea di sottoporre a sanzioni il proprietario di questo bell’albergo per aver finanziato il regime. Anche a questo riguardo però emerge una novità: le agenzie Onu avrebbero chiesto di poter alloggiare altrove, in strutture meno costose diciamo, ma questa autorizzazione il regime non l’ha mai data. Poi c’è anche il problema del cambio dollaro-lira siriana che è stato imposto all’Onu, ma questo certo non può sorprendere.

Qui per il Financial Times emerge il dilemma che i funzionari Onu si sono trovati a dover fronteggiare: ribellarsi a tutto questo e mettere a rischio gli aiuti per la stremata popolazione siriana o accettare? Di qui deriva anche l’imposizione di collaborare con agenzie siriane, ufficialmente umanitarie ma strettamente legate al regime. È il caso della Croce Rossa Araba Siriana, gestita da un caro amico del presidente, Khaled Hboubati, e del Syria Trust for Development, fondato dalla First Lady siriana, signora Asma Assad. È in questo quadro che arriva il focus sulla Croce Rossa Araba Siriana, Sarc, interfaccia principale delle agenzie Onu con considerevole potere sull’operato delle grandi Ong internazionali. Si legge nell’articolo del Financial Times: “I suoi sforzi di aiuto – che, come tutti i programmi di aiuto in Siria, devono essere approvati da un comitato governativo con il contributo di vari ministeri e rami dell’intelligence – hanno ricevuto un’ulteriore approvazione da parte dell’apparato di sicurezza dello Stato, suggerendo di aiutare a dirigere gli sforzi di aiuto. I gruppi di aiuto affermano che l’ottenimento di queste autorizzazioni è un ostacolo significativo al loro lavoro”. Così si capisce come mai l’inchiesta del Financial Times abbia scoperto che “quasi un quarto dei primi 100 fornitori elencati come destinatari di fondi per gli appalti delle Nazioni Unite tra il 2019 e il 2021 sono aziende sottoposte a sanzioni da parte degli Stati Uniti, dell’Unione europea o del Regno Unito, o di proprietà di individui sottoposti a sanzioni, secondo un rapporto di cui è coautore Karam Shaar, economista politico presso il think tank Middle East Institute”.

Così, anche oggi come da anni, torna la domanda: la tutela dei diritti umani è un valido prerequisito per il settore umanitario dell’Onu?


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