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Il porto di Trieste e quel dossier caldo per la Via della Seta

Giornate di campagna elettorale a sostegno del governatore Fedriga per la maggioranza. Meloni sottolinea l’importanza dello scalo mentre Berlusconi è più esplicito e mette in guardia dalle mani cinesi “non amichevoli”. Nelle scorse settimane Nietsche (Cnas) spiegava a Formiche.net tutti i rischi di rinnovare il memorandum

“Trieste è nel mio cuore”, ha detto Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, in un’intervista al quotidiano locale Il Piccolo in occasione della sua visita a Udine per sostenere la campagna elettorale del governatore Massimiliano Fedriga in Friuli-Venezia Giulia. “I suoi caffè, la sua naturale eleganza, il suo porto, il suo commercio, la sua storia, la sua forte cultura che fa da ponte tra il Mediterraneo e la Mitteleuropa, sono una mappa non della frontiera, ma dell’Italia”, ha spiegato.

Di Trieste il governo vuole fare il principale porto di riferimento per l’import-export dell’Ucraina in guerra, come ha annunciato Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, nelle scorse settimane. A tal proposito, Meloni ha spiegato che “Trieste ha il porto dei record, sta crescendo in altri settori e dipende sempre meno dal commercio del petrolio. E la piattaforma naturale per proiettarsi a Oriente e per aprire la strada dal Nordest europeo verso il Mediterraneo”, ha aggiunto. “L’Ucraina è per noi una speranza di pace e un’opportunità per il futuro. Quando la guerra finirà – e io mi auguro che accada presto – le imprese italiane saranno pronte a cogliere la sfida per far rinascere l’economia di Kiev”, ha spiegato ancora ricordando la Conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina in programma a Roma il 26 aprile.

Meloni non cita la Cina, che pur ha importanti mire sullo scalo di Trieste (che hanno alimentato altrettante preoccupazioni agli Stati Uniti) come su quello di Taranto. Esplicito, invece, è stato un giorno prima Silvio Berlusconi. In una lettera al quotidiano Il Piccolo, il leader di Forza Italia ha sottolineato l’impegno del governo verso i Balcani e poi ha scritto: “Non possiamo lasciare la più strategica delle infrastrutture, il porto di Trieste, nelle mani non amichevoli del progetto cinese della Via della Seta. Naturalmente, la Cina è un interlocutore essenziale per un territorio che vive di commerci, ma il rapporto con la Cina non può essere di subordinazione strutturale. Trieste e il suo territorio sono per la mia generazione il simbolo dell’amore per l’Italia”.

Tra le intese commerciali firmate in occasione dell’adesione dell’Italia alla Via della Seta nel marzo del 2019 figura un accordo di cooperazione tra China Communications Construction Company (Cccc), società nella mani del governo cinese e contractor in molti progetti espansionistici di Pechino, e l’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale – Porti di Trieste e Monfalcone.

Nel 2020 il governo statunitense ha inserito Cccc nelle liste nere del dipartimento della Difesa e di quello del Commercio per i legami con l’esercito cinese. C’è poi la questione che riguarda l’ingresso del gruppo statale cinese per le spedizioni e la logistica Cosco nel terminale di Tollerort, parte del porto di Amburgo con una quota pari al di 24,9 per cento della compagnia di logistica Hamburger Hafen und Logistik AG (Hhla), partecipata dall’ente amministrativo federale della città di Amburgo e che all’inizio del 2021 ha concluso all’inizio dell’anno scorso un’operazione per l’acquisizione del 50,01% della società triestina Piattaforma logistica Trieste. L’affare sinotedesco “non sembra presentare ripercussioni dirette su Trieste”, ha spiegato nei mesi scorsi Francesca Ghiretti, analista del centro studi tedesco Merics, a Formiche.net. “Ma guardando all’operazione in maniera più generale emergono alcuni interrogativi che riguardano la concorrenza. Infatti, Cosco, che riceve fondi statali dalla Cina, non compete allo stesso livello di altre imprese nel settore. Inoltre, la sua posizione dominante sul mercato è un potenziale strumento geopolitico per Pechino”, ha aggiunto.

Entro fine anno il governo Meloni dovrà decidere sul memorandum d’intesa sulla Via della Seta firmato dal governo Conte nel 2019. Il rinnovo di altri cinque anni sarà automatico, a meno che l’Italia e/o la Cina non decidano di fare un passo indietro comunicandolo all’altra parte tre mesi prima. La questione è “ancora oggetto di valutazione”, ha detto Meloni nelle scorse settimane.

Poche ore dopo il discorso con cui Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha invitato l’Europa a essere “più coraggiosa” verso la Cina, Fu Cong, ambasciatore cinese presso l’Unione europea ha parlato al Financial Times mettendo in guardia i Paesi europei intenzionati a seguire le richieste americani di limitare il commercio con Pechino. Lo farebbero “a proprio rischio e pericolo”, ha spiegato. Un messaggio che sembra diretto anche all’Italia, visto che è in linea con alcuni timori diffusi tra i diplomatici italiani secondo cui un passo indietro dalla Via della Seta potrebbe scatenare una dura reazione di Pechino come quelle avute, a suon di misure coercitive, nei confronti dell’Australia (proprio sulla Via della Seta) e della Lituania (su Taiwan). Gli stessi evidenziano che il memorandum è di fatto lettera morta visto, come si legge nel documento sottoscritto nel 2019, esso “non costituisce un accordo internazionale da cui possano derivare diritti ed obblighi di diritto internazionale”. I paragoni con Lituania e Australia sono giudicati eccessivi da chi spinge per il non rinnovo: l’Italia è un Paese del G7 (l’unico ad aver aderito il progetto di Pechino, tra l’altro) e una simile risposta otterrebbe una durissima contro-reazione da parte del club, è il ragionamento.

La decisione verrà presa da Palazzo Chigi, dove si lavora anche alle prossime visite di Meloni negli Stati Uniti e in Cina. Un’indicazione potrebbe arrivare dal Belt and Road Forum che dovrebbe tenersi entro fine anno: una partecipazione italiana potrebbe essere un’indicazione della strada scelta dal governo Meloni sul rinnovo del memorandum. Carisa Nietsche, ricercatrice associata del Transatlantic Security Program presso il Center for a New American Security di Washington DC, ha spiegato nelle scorse settimana a Formiche.net che “sebbene la fine del memorandum d’intesa potrebbe provocare ritorsioni da parte di Pechino, i rischi di rimanere nella Via della Seta sono ben maggiori”. Qualche esempio: “Il controllo cinese di infrastrutture critiche, come porti e cavi sottomarini, potrebbe compromettere le operazioni militari degli Stati Uniti e degli alleati in Europa. Inoltre, le infrastrutture digitali controllate dalla Cina rappresentano un rischio significativo per l’Europa, soprattutto le reti 5G”, sosteneva ancora l’esperta. C’è poi un tema di compattezza transatlantica. Una decisione italiana di rinnovare il memorandum d’intesa “rischierebbe di seminare divisioni tra Italia e Stati Uniti e all’interno dell’Unione europea”, proseguiva Nietsche.



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