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Vi spiego i parallelismi sull’uso della fiducia in Francia e in Italia. Scrive Celotto

In cosa si distinguono le costituzioni italiana e francese quando si tratta dell’uso della fiducia all’interno delle aule parlamentari? E quali, invece, le similitudini, anche nelle prassi? Lo spiega il costituzionalista Alfonso Celotto

La Francia è attraversata dal vento della protesta per la riforma delle pensioni, che è stata approvata applicando l’art. 49 della Costituzione. Cioè è stata approvata senza il voto del Parlamento, perché la Costituzione francese consente al governo di dare per approvata una legge, salvo che il Parlamento non chieda una mozione di sfiducia.

Uno strumento che in Francia non viene usato spesso, perché la Costituzione chiarisce che può essere chiesto soltanto una volta a sessione, ma che in pratica consente al governo di blindare un suo progetto, impegnando la fiducia.

Infatti, prima ancora di Borne, l’hanno usato Pompidou, Chirac, Rocard, riuscendo sempre a resistere anche alla successiva mozione. Se ci pensiamo bene non è uno strumento molto dissimile dalla questione di fiducia utilizzata spesso nel nostro circuito di governo. Solo che in Italia noi ci siamo così abituati che quasi nessuno ci fa più caso.

Quando il governo pone una questione di fiducia sul voto di un testo di legge si producono due effetti importantissimi che consentono di blindare il voto e ridurre i tempi di approvazione:
– cadono tutti gli emendamenti presentati, in quanto è il governo a decidere il testo da votare;
– si vota per appello nominale, cioè con voto palese, in maniera da evitare gli scherzi del voto segreto (dicesi: franchi tiratori).

In pratica, il governo impone al Parlamento un suo testo, facendo venir meno ogni dibattito o possibilità di modifica In cambio, il governo impegna la propria permanenza in carica, cioè la propria fiducia, nel caso in cui il Parlamento non approvi quel testo (dicesi: “mandi sotto” il governo).

Così quando il governo molto spesso si trova a dover affrontare decine se non centinaia di emendamenti su testi complessi e spesso a termini prossimi alla scadenza (il riferimento è ovviamente alla sempre frequente conversione di decreti-legge), cosa c’è di meglio di una “bacchetta magica” che consente di strozzare ogni discussione?

Così da parecchi decenni la prassi ha creato questa comoda figura, solo dal 1971 disciplinata nei regolamenti parlamentari (art. 116 Reg. Camera) senza alcun riferimento preciso in Costituzione.

E i governi la utilizzano a piene mani. Di destra o di sinistra. Forti o deboli. Tecnici o politici che siano. Da Prodi a Berlusconi, da Monti a Draghi, fino al governo Meloni che nei primi due mesi ha fatto ricorso cinque volte alla fiducia.

Possiamo discutere se il ricorso alla fiducia sia uno strumento di debolezza o di forza. Ad ogni modo porta sempre allo stesso risultato, indebolendo il ruolo del Parlamento, in Francia come in Italia, sia che venga regolato in Costituzione, sia che sia previsto soltanto dai regolamenti parlamentari.

Forse dalla Francia dovremmo copiare il limite. Cioè il fatto di poter ricorrere a questa forma di fiducia soltanto una volta a sessione e soltanto per il voto di un progetto di legge finanziaria o di finanziamento della previdenza sociale.

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