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Via Fani, fare sempre memoria per difendere la democrazia. L’opinione di D’Ambrosio

Il fare memoria necessita, anche, di libertà. Chi non è libero interiormente rischia di trasformare la memoria in propaganda e questa, come tale, è quasi sempre in vista di potere, privilegi e denaro. Il commento di Rocco D’Ambrosio, presbitero della diocesi di Bari, ordinario di Filosofia Politica nella facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana di Roma

In un’epoca in cui crescono sempre più sovranismi, nazionalismi, populismi e rinnegamenti delle atrocità del passato si pone spesso la necessità di dare senso al fare memoria. Il problema della memoria, per quanto accompagni la vita personale e comunitaria, in tutti i momenti, si pone – sappiamo bene – in maniera forte quando la memoria abbraccia eventi storici notevoli, spesso violenti e devastanti per molti aspetti, per esempio il terrorismo e lo stragismo nell’Italia repubblicana. Ovviamente il problema potrebbe essere posto sia sul piano personale, con i suoi innumerevoli risvolti psicologici ed educativi, sia sul piano comunitario, per cui abbozzo qualche riflessione personale, anche alla luce dei fatti di ieri, 16 marzo. Il governo non ha partecipato alla commemorazione, nel giorno nel quale Aldo Moro venne rapito dal commando brigatista che quarantacinque anni fa uccise anche cinque agenti della sua scorta. Il governo Meloni sembra avere proprio difficoltà a “relazionarsi” con chi non c’è più, a fare memoria, delle vittime di Cutro come di Aldo Moro. È un ulteriore elemento che fa pensare a un deficit di memoria e di umanità nella compagine di governo. A niente servono – anzi stonano e sono fuori luogo – due messaggi “riparatori” su Twitter, dopo la loro assenza alla commemorazione, postati da Meloni e Piantedosi.

Sembra essere una costante storica la difficoltà che hanno le comunità democratiche a gestire il ricordo del loro passato recente o remoto. Lo stesso si può dire di eventi traumatici per la storia delle nostre democrazie: attentati terroristici di matrice integralista; terrorismo politico che ha afflitto diverse democrazie (in Italia il terrorismo rosso e quello nero e il conseguente stragismo). Ugualmente il discorso può essere applicato, fatte le dovute distinzioni, alla scoperta di scandali all’interno di istituzioni di alto profilo morale; si pensi alla Chiesa cattolica, relativamente allo scandalo dei pedofili o a scandali nazionali che hanno colpito determinanti figure istituzionali nell’ambito dei singoli Stati.

A prescindere da dittatori o ideologie, terroristi o persone che hanno abusato di persone e ruoli, il far memoria si connota come una rude fatica, non sempre favorita dalle istituzioni nazionali e internazionali, spesso anche ostacolata, finanche con l’uso di diversi mezzi di comunicazione. Senza trascurare il fatto che ogni esercizio di memoria corre il rischio di diventare retorico e quindi poco utile per il singolo e la comunità. Ha scritto Pietro Scoppola: «La storia, come gli storici sanno bene in contrasto con l’opinione corrente non dà lezioni, non detta comportamenti, non dice a nessuno cosa deve fare; ma solo aiuta, un poco, a capire che cosa siamo, lasciandoci tutta intera la responsabilità di scegliere, dopo averci messo in una posizione un poco più elevata, con la possibilità di un orizzonte più aperto» (La “nuova cristianità” perduta).

Lo sforzo di capire, di trarre una lezione dalla storia, necessita di alcuni atteggiamenti antropologici ed etici fondamentali, che sono condizione necessaria e indispensabile per evitare retorica e strumentalizzazione di ogni memoria. Ne sottolineo due: la lezione della storia e la libertà e l’onestà che la memoria richiede.

Scoppola fa riferimento al rapporto tra storia e “cosa siamo”. La nostra identità personale e sociale è il frutto di un lungo cammino storico. Sinteticamente Emmanuel Mounier dice che ognuno di noi è “qui adesso così fra questi uomini con questo passato” (Traité du caractère).

Ciò significa che, in termini identitari, nella nostra vita, abbiamo – sempre parole di Mounier – dato e ricevuto e questo processo ha permesso di diventare quello che siamo, sia positivamente che negativamente. Il fare memoria vuol dire andare alle radici personali e sociali per scoprire sempre più chi siamo e dove andiamo. L’Italia è una Repubblica di cittadini che sono tali nella misura in cui fanno memoria continua del loro impegno per la dignità e il valore di ogni persona, per la promozione della pace, della solidarietà e della giustizia, per la salvaguardia della natura autenticamente antifascista e democratica del nostro Paese.

Il fare memoria necessita, anche, di libertà. Chi non è libero interiormente rischia di trasformare la memoria in propaganda e questa, come tale, è quasi sempre in vista di potere, privilegi e denaro. Si pensi, per esempio, all’atteggiamento “negazionista”, che oltre ad essere il tradimento dell’autenticità della ricerca ed elaborazione scientifiche, nasconde anche doppi fini: chi lo pratica è poco libero da se stesso, dagli altri, dal potere e dal denaro per affermare onestamente come le cose stanno, fino a negare l’evidenza, che è una colpa gravissima, sia civile che religiosa (si pensi al negazionismo sui diversi Olocausti nel mondo; su fascismo, nazismo, comunismo totalitario ecc.). L’atteggiamento di libertà va di pari passo con quello dell’onestà. Chi non è onesto intellettualmente rischia di trasformare la memoria in un ennesimo lancio di fango su persone ed eventi oppure in operazione elettorale alla caccia di consensi. Nel far memoria, non ci sono dubbi, le mezze verità e le verità mutilate, fanno male, tanto male.

La perdita di memoria è un problema serissimo. Dietrich Bonhoeffer, nelle riflessioni dal lager nazista dove era rinchiuso, scriveva: “Viene il tempo in cui tutto si farà per esperienza, tutto a breve termine, a breve respiro, senza una memoria morale. Ma per ogni costruzione umana, l’amicizia, l’amore, il matrimonio, la famiglia, occorre molto tempo, occorre perseverare, occorre fare una storia a costo di degenerare!”.



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