Luciano Violante e Giampaolo Pansa, testimoni del pensiero di un grande italiano come Piero Calamandrei, possono essere due grandi mentori per la presidente del Consiglio con davanti a sé una prateria di argomenti per chiudere definitivamente la frattura nella storia del dopoguerra
Tutto il mondo del “politicamente corretto” aspetta coi fucili spianati di ascoltare e analizzare il discorso che Giorgia Meloni farà il prossimo 25 aprile. La presidente del Consiglio ha il dovere di partecipare a quella messa che vale la sua Parigi.
A metterla in difficoltà – nei giorni scorsi – sono state le uscite infelici del presidente del Senato Ignazio La Russa, che non si è reso ancora conto del ruolo che è stato chiamato a ricoprire. La Russa si era già fatto riconoscere a proposito dell’attentato di via Rasella nel 1944 quando definì musicisti e pre-pensionati i soldati tedeschi morti nell’agguato dei “gappisti” romani. Su quell’episodio della resistenza nella Capitale si dibatte da decenni con versioni e opinioni diverse, non del tutto infondate, anche tra gli storici. Ma come succede in questi casi la storia la scrive chi vince e quindi c’è una “verità ufficiale”. L’attentato fu considerato un atto di guerra, tanto che i suoi autori vennero persino decorati. Se un presidente del Senato ritiene di pronunciarsi su quel tragico evento ha il dovere di attenersi a quanto ha certificato la storiografia di quello Stato di cui egli rappresenta la seconda carica.
Ma l’ultima intemerata di La Russa è stata ancor più clamorosa. Negare il dna antifascista della Costituzione del 1948 equivale a fare un torto alla verità giuridica, politica e storica. Per quanto riguarda il primo aspetto basta ricordare l’articolo 1. Se l’Italia è una Repubblica democratica non può che essere contraria ai regimi dittatoriali; se riconosce il pluralismo politico e sociale, se le istituzioni politiche sono elette dai cittadini, se sono riconosciuti diritti politici, civili e sociali senza alcuna distinzione e limitazione, è evidente la volontà dei legislatori di una cesura col passato. Del resto tutte le Costituzioni nascono in polemica con l’ordinamento precedente. Ma vi sono norme ancora più esplicite come la Disposizione transitoria e finale che proibisce la ricostruzione, in qualsiasi forma, del partito fascista.
La presidente è pertanto chiamata in causa per chiarire la posizione del governo e sua personale e per chiudere un dibattito di cui non si sentiva la mancanza, che fornisce il tema dell’antifascismo a un’opposizione disperata che non riesce a trovarne altri.
Del resto la storiografia più recente ha rivisitato, con maggiore obiettività, i fatti e gli eventi intercorsi tra la fine della Grande guerra e lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Fatti ed eventi che spiegano anche se non giustificano, ma condannano, i processi storici che caratterizzarono quel periodo.
C’è qualcuno in possesso di tutte le sue facoltà mentali che rimpiange la sconfitta del nazifascismo, che è convinto che il mondo oggi sarebbe migliore se Adolf Hitler e Benito Mussolini e gli alleati nipponici avessero sconfitto le potenze democratiche? Quando il governo Meloni si riconosce nei valori e nel sistema di alleanze del mondo libero, quando annuncia che aiuterà fino alla fine la resistenza dell’Ucraina, anche se questa linea di condotta dovesse costare parecchio in termini di consenso, non riconosce forse che tutto ciò è possibile perché i regimi totalitari sono stati sconfitti e che il nazifascismo di oggi è quello che ha sede nel Cremlino? Fratelli d’Italia – diversamente dalla Lega – non ha nulla da spartire con gli eredi francesi di Vichy o con i neonazisti tedeschi, ma appartiene a un’alleanza – di cui Meloni è presidente – di partiti conservatori, ma con tradizioni gloriose nella lotta al nazifascismo e agli altri totalitarismi del Secolo breve.
Se oggi l’Italia è una potenza politica ed economica, riconosciuta nel mondo, ciò è dovuto agli esiti della Seconda guerra mondiale, agli ordinamenti internazionali che furono creati e alle alleanze contratte dai governi del dopoguerra. Sono scelte che hanno difeso, anche, la libertà e l’agibilità politica delle formazioni neofasciste, ne hanno consentito la trasformazione politica e culturale fino alla possibilità di governare, legittimamente e col consenso, il Paese.
Meloni non penserà mica che quel 30% dei votanti che hanno fatto di Fratelli d’Italia il primo partito nell’arco di un quinquennio, siano dei “nostalgici”? La presidente può stare tranquilla; quei voti sono suoi non di La Russa. Un’indagine condotta dopo le elezioni del 25 settembre hanno stimato che l’apporto della struttura nel voto a FdI ha inciso per una percentuale molto bassa. il resto è stato di Meloni. “Io sono Giorgia” ha infranto due soffitti di cristallo: ha portato a Palazzo Chigi una donna e al governo una forza politica emarginata da tutte le altre prima che Silvio Berlusconi riuscisse a “sdoganarla”. Giorgia può svolgere il ruolo storico di chiudere per sempre la guerra civile che insanguinato l’Italia tra il 1943 e il 1945 (e i suoi lasciti perduranti), riconoscendo la vittoria e il merito di coloro che hanno combattuto dalla parte giusta.
Il 25 aprile non è una data da mettere – come è scritto nella risoluzione della maggioranza – insieme a tante altre. È la festa che segna la ripartenza di questa Italia. Meloni, se vuole, ha davanti a sé una prateria di argomenti per chiudere definitivamente la frattura nella storia del dopoguerra. Deve pretendere il rispetto, almeno la pietas, per chi ha combattuto dalla parte sbagliata. Non era facile, in mezzo a quella tragedia, trovare la via giusta. Su questa linea Meloni può vantare due grandi mentori. Il primo è Luciano Violante che, nel discorso di insediamento alla presidenza della Camera, nel 1996, affermò: “Dopo l’8 settembre anche chi andò dalla parte sbagliata e per quella idea morì, merita rispetto come le vittime della Resistenza”. “Mi chiedo”, aggiunse “se l’Italia di oggi, se noi, cioè, non si debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri”. Quelle parole suscitarono dissensi e proteste, ma Violante non si è smentito. In questi giorni, in mezzo allo sconcio di un dibattito insensato e strumentale, l’ex presidente della Camera ha dichiarato: “Liberiamoci dalla toga di giudici severi del comportamento altrui”. Il mio amico Giampaolo Pansa ha dedicato l’ultima parte della sua vita e molti suoi libri al ‘sangue dei vinti”, incurante dei settarismi che fu costretto a subire.
Sia Violante che Pansa, erano testimoni del pensiero di un grande italiano, Piero Calamandrei, che fu uno dei Padri costituenti: “Gli uomini che appartennero alla Resistenza”, scrisse Calamandrei, “devono far di tutto per cercare che queste mura non diventino ancora più alte, che non diventino torri di fortilizi irte di ordigni di distruzione e ricercare i valichi sotterranei attraverso i quali, in nome della Resistenza combattuta in comune, si possa far passare ancora una voce, un sussurro, un richiamo. Quello che unisce, non quello che separa; rifiutarsi sempre di considerare un uomo meno uomo, solo perché appartiene a un’altra razza o a un’altra religione o a un altro partito“.