Sono ormai passati quasi ottant’anni dal 25 aprile del 1943. Un periodo sufficiente per spingere ad una rimeditazione su quello che siamo stati. Ma soprattutto per scrutare, per quanto possibile, un futuro incerto e minaccioso… La riflessione di Gianfranco Polillo
Dal 25 aprile del 1943 sono passati quasi ottant’anni. Un periodo sufficiente per spingere ad una rimeditazione su quello che siamo stati. Ma soprattutto per scrutare, per quanto possibile, un futuro incerto e minaccioso. Si pensi solo al rifiorire di un imperialismo – russo e cinese – che storicamente rappresenta quello che in passato era stato il lato opposto della medaglia. Quella vocazione antimperialista che aveva portato entrambi, seppure in chiave anti occidentale, a sostenere le lotte di liberazione dei popoli: dal Vietnam, all’America Latina; dal Medio Oriente, all’India e all’Indonesia.
Nel passato della storia nazionale, il carattere antifascista della Carta costituzionale italiana risulta evidente nei suoi principi ispiratori, destinati a marcare una cesura profonda con le modifiche apportate dal regime di Mussolini al precedente Statuto Albertino. Le cui intrinseche debolezze, tuttavia, ne favorirono, e non di poco, la successiva torsione autoritaria. Del resto la tesi che nella Costituzione italiana non compaia il termine “antifascismo” non è condivisibile. A smentire questa presunta teoria è la XII disposizione transitoria della stessa che “vieta sotto qualsiasi forma la ricostituzione del disciolto partito fascista”.
In passato sulla natura di queste disposizioni transitorie si discusse a lungo, per giungere alla conclusione di una loro completa equiparazione con le altre norme costituzionali. Se non altro a causa del fatto ch’esse prevedevano una deroga, seppur provvisoria, all’articolo 48 della stessa Costituzione, sul diritto di voto. Diritto che rappresenta il cardine distintivo dell’intero sistema parlamentare. A sua volta riflesso della profonda discontinuità con il precedente regime. Deroga che poteva essere concepita solo equiparando la forza dei due contrapposti precetti.
Sul piano normativo, la successiva legge Scelba cercò di dare sostanza al precetto costituzionale, individuando le forme specifiche in cui si sarebbe potuto manifestare il “disciolto partito fascista”. La legge (n. 645) fu emanata nel 1952, rispettando il periodo indicato dalla disposizione costituzionale che prevedeva appunto limitazioni al diritto di voto, per un periodo massimo di 5 anni dall’entrata in vigore della Costituzione. Fu soprattutto l’urgenza politica del momento a giustificare quella scelta. Si era in pieno “centrismo” e il governo De Gasperi era sotto assedio, sia da parte della destra che della sinistra. Si temevano pertanto possibili azioni violente rivolte a rovesciare l’ordine democratico. La legge, appena promulgata, voleva essere un monito contro possibili azioni future.
La successiva legge Mancino, (la n. 205 del 1993) è da molti considerata, in modo non del tutto fondato, una sorta di nuova appendice nel solco dell’antifascismo. Essa era rivolta a reprimere ogni forma di odio e di discriminazione razziale. Ma il collegamento con l’antifascismo, in questo caso, è fin troppo esile. Specie se si considera che in precedenza l’Italia aveva recepito con legge (n. 654 del 1975), seppure con un forte ritardo, la Convenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966. Più che un ponte verso il passato, la legge Mancino non era altro che il doveroso raccordo con le nuove regole internazionali.
Fin qui l’antifascismo come attributo di regole di carattere costituzionale. Con la loro relativa oggettività. Ma anche qualcosa di profondamente diverso da quell’”antifascismo militante” che ha caratterizzato gran parte degli anni che ci dividono da quel lontano 25 aprile del 1943. Esso segnò il passaggio dalla semplice “teoria”, avrebbe detto Antonio Gramsci, alla “prassi”. Vale a dire dal pure ricordo, seppur non solo celebrativo, ad elemento di mobilitazione politica, per ottenere risultati conseguenti. Durante la “guerra fredda” fu quindi elemento centrale del tentativo, da parte del Pci e della Terza Internazionale, guidata da Mosca, di costruire un fronte più largo al fine di indebolire i partiti democratici. E quindi modificare, a favore dell’Urss, gli accordi di Yalta.
Fu un bene o un male? Per alcuni versi fu un bene, nel mantenere viva la necessità di difendere le libertà democratiche così duramente conquistate, con il sacrificio dei nostri padri. Ma fu anche un male, nel momento in cui fu utilizzato soprattutto dai comunisti di allora per allargare la loro sfera d’influenza. Senza per altro mai considerare che, ad insidiare quelle libertà e quegli stessi principi, erano soprattutto i propri alleati oltre la cosiddetta “cortina di ferro”. Trionfo di doppiezza, come gli storici di allora dovevano riconoscere. Ma una “doppiezza” destinata a far precipitare lo stesso afflato ideale di quella posizione, destinata a rivelarsi, per le sue interne contraddizioni, mero elemento strumentale di un obiettivo di carattere politico.
E quale obiettivo, poi! A distanza di ottant’anni, la Russia di Putin rischia di far rimpiangere il peggiore stalinismo, che forse non era mai arrivato a compiere le azioni che si sono viste durante l’invasione dell’Ucraina. La bella vita degli oligarchi, i giovani russi usati come carne da cannone, il massacro sistematico della popolazione ucraina, la deportazione di bambini, l’utilizzo di legioni di mercenari – la Wagner – in azioni di conquista o di destabilizzazione in varie parti del mondo, il mancato rispetto della Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra, il capo del Cremlino accusato, a sua volta, di essere un “criminale di guerra” dalla Corte penale internazionale, la continua minaccia di ricorrere all’impiego di armi nucleari.
E nonostante tutto ciò, la teoria, veicolata dai media del regime, della lotta “antinazista”, per giustificare l’invasione imperialista. Le cui assonanze con la prospettiva della milizia “antifascista” sono così evidenti, da non lasciare adito a possibili dubbi sull’uso strumentale di determinate parole.