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La Cina cerca ancora di costruire una base negli Emirati

Il progetto cinese di una base negli Emirati sta andando avanti? Il Washington Post ha ottenuto informazioni riservate a riguardo, mentre negli Stati Uniti crescono le discussioni sul come trattare i rapporti degli alleati del Golfo con Pechino

I servizi di intelligence americani hanno individuato la costruzione di una presunta struttura militare cinese negli Emirati Arabi Uniti a dicembre 2022, un anno dopo che Abu Dhabi aveva garantito a Washington di aver interrotto il progetto a causa delle preoccupazioni degli Stati Uniti. La notizia su queste evoluzioni l’ha data il Washington Post, che ha ottenuto documenti di intelligence top secret.

La base emiratina

I funzionari militari cinesi chiamano l’iniziativa “Progetto 141”. L’area si trova al Port Khalifa, dove opera già il conglomerato China Harbour Engineering Company (Chec). A fine 2021 il consigliere per la politica estera presidenziale emiratino, Anwar Gargash, aveva dichiarato che alcuni lavori di ampliamento nella zona gestita da Chec – quelli che avevano fatto preoccupare Washington – erano stati fermati. È quasi superfluo considerare il valore tattico, strategico e simbolico dell’infrastruttura – per questo se ne parla da tempo.

Per Pechino significherebbe piantare una base all’interno di una regione sempre più centrale — che tra l’altro per la Cina è ancora molto importante per l’approvvigionamento di materie prime energetiche — e farlo in un Paese chiave. Gli Emirati stanno diventando un hub finanziario globale, sono lanciati in progetti ultra-tecnologici, sono attivi protagonisti di dinamiche regionali e da un po’ di tempo hanno dimostrato interesse a muoversi come un attore internazionale cavalcando le opportunità che offre la costruzione di una nuova dimensione multipolare degli affari globali. L’idea cinese (e in parte emiratina) è di collegare la Collana di Perle – i porti dove operano le importantissime società della logistica emiratina – con le rotte marittime della Via della Seta. La base aggiungerebbe ulteriore profondità al piano.

Le attività nel porto vicino ad Abu Dhabi sono tra i numerosi sviluppi negli Emirati Arabi Uniti che coinvolgono le forze armate cinesi e che l’intelligence statunitense sta monitorando per timore che l’alleato mediorientale stia sviluppando legami di sicurezza eccessivamente stretti con la Cina a scapito degli interessi statunitensi, secondo le valutazioni contenute nei documenti visti dal WaPo. Anche l’avvistamento di personale militare cinese nei pressi di altri cantieri sensibili ha “disturbato” i funzionari statunitensi.

Il network cinese

A dicembre dello scorso anno, la struttura cinese al Port Khalifa “è stata probabilmente collegata all’energia elettrica e all’acqua municipale” e “è stato completato un perimetro murato per un sito di stoccaggio logistico”, si legge in uno dei documenti di intelligence statunitensi trapelati. Un secondo documento avverte che “la struttura del PLA” (acronimo inglese dell’Esercito di Liberazione Popolare) è “una parte importante” del piano di Pechino di stabilire una base militare negli Emirati.

Non solo: gli sforzi di Pechino negli Emirati sono descritti come parte di un’ambiziosa campagna delle Forze armate cinesi per costruire una rete militare globale che comprenda almeno cinque basi all’estero e 10 siti di supporto logistico entro il 2030, secondo l’analisi — che presenta una mappa di altre strutture pianificate in Medio Oriente, nel Sud-Est asiatico e in Africa, e dunque presto ci si attendono nuove puntate della serie.

Il WaPo ha ottenuto questi documenti classificati, che non sono stati riportati in precedenza, da una serie di materiali di intelligence trapelati sulla piattaforma di messaggistica Discord. Le rivelazioni, che includono dettagli sul programma di sorveglianza aerea di Pechino e sui piani per lo sviluppo di droni supersonici, arrivano in un momento complesso nelle relazioni tra Stati Uniti e Cina. Entrambi i Paesi si contendono l’influenza e le risorse globali, non senza tensioni, e mentre all’interno dell’amministrazione Biden si continua a pensare un modo per non distruggere del tutto le relazioni con Pechino.

Narrazioni e interessi

Così come sulla necessità di dialogare con la Cina, anche sulle scelte di Abu Dhabi riguardo al rapporto con Pechino non c’è consenso unanime a Washington. Le attività cinesi degli emiratini, così come quelle dell’Arabia Saudite, sono considerate in parte gestibili, perché gli americani hanno da sempre in mano una carta forte: gli Stati Uniti da anni sono militarmente presenti nell’area, hanno acquisito posizioni di vantaggio non raggiungibili se non in decenni, e sono i tutori dell’ordine securitario regionale.

Un ruolo che per ora i cinesi non sembrano interessati a prendere, ma l’apertura di nuove basi potrebbe portarsi dietro la possibilità di un maggiore coinvolgimento di Pechino anche sulla sfera difesa e sicurezza, oltre che sulla dimensione economico-commerciale (dove la Cina ha già un ruolo predominante). E oltre a un ruolo più attivo sul piano diplomatico, che il Partito/Stato ha dimostrato di voler avere per esempio portando Iran e Arabia Saudita nella capitale cinese a siglare un’intesa storica per la normalizzazione delle relazioni.

“In linea di principio, la Cina conduce una normale cooperazione per l’applicazione della legge e la sicurezza con gli altri Paesi sulla base dell’uguaglianza e del mutuo vantaggio”, ha dichiarato il portavoce dell’ambasciata cinese a Washington – che fino a qualche mese è stata gestita dall’attuale ministero degli Esteri. “Gli Stati Uniti gestiscono più di 800 basi militari all’estero, il che ha causato preoccupazione in molti Paesi del mondo. Non è nella posizione di criticare gli altri Paesi”, ha aggiunto perfettamente allineato con la narrazione strategica del Partito, che calca la mano sulla mentalità da Guerra Fredda statunitense e sulle problematiche che essa avrebbe creato, e continuerebbe a creare.

La questione Usa-Medio Oriente-Cina

I legami degli Emirati Arabi Uniti con la Cina hanno messo a dura prova i piani per portare avanti la vendita da 23 miliardi di dollari di caccia americani F-35, di droni Reaper e di altre armi statunitensi, suscitando congetture all’interno dell’amministrazione Biden se dare la priorità alla conservazione delle partnership ereditate in Medio Oriente o al contrasto dell’ascesa della Cina. “Ci sono persone che credono che questo sia un momento molto difficile in Medio Oriente e che l’elemento più importante della nostra diplomazia in questa fase debba essere un certo grado di pazienza”, ha detto in anonimo un alto funzionario statunitense al WaPo. “Ma ci sono discussioni, assolutamente”.

Alla domanda su come gli Stati Uniti possano contrastare il ruolo sempre più attivo della Cina nella regione, l’assistente segretario di Stato per gli Affari del vicino oriente, Barbara Leaf, ha recentemente risposto al media emiratino The Nazional: “Non stiamo cercando di contrastare, siamo molto fiduciosi nella lunghezza, durata, portata e ricchezza delle nostre relazioni in tutta la regione”. Nonostante i timori nella regione che gli Stati Uniti si aspettino che i Paesi scelgano da che parte stare tra Washington e Pechino, Leaf ha affermato che: “Non siamo in un gioco a somma zero: o noi o loro”. Gli Stati Uniti hanno aree specifiche di preoccupazione nei confronti della Cina, che comunicano ai loro alleati, tra cui “preoccupazioni relative alla fascia più alta della nostra tecnologia, o a quella commerciale o alla difesa. Abbiamo preoccupazioni molto specifiche sulla giustapposizione dei nostri sistemi a quelli cinesi. Ma si tratta di discussioni molto accurate e mirate. E credo sia giusto dire che i nostri partner lo capiscono”.



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