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Migrazioni forzate, sfida alle civiltà mediterranee. Il rapporto del Centro Astalli

È stato presentato oggi a Roma il rapporto annuale sulle migrazioni forzate e realizzato dalla sezione italiana del Jesuit Refugee Service, il Centro Astalli. Uno strumento importante per fare il punto su un problema che dopo tanti anni è difficile capire come possa essere considerato un’emergenza. Il punto di Riccardo Cristiano

La presentazione del rapporto annuale sulle migrazioni forzate (o fughe da un mondo inaridito dalle siccità, invaso dalle alluvioni o dato alle fiamme) e realizzato dalla sezione italiana del Jesuit Refugee Service, il Centro Astalli, è diventata un appuntamento importante non solo per la città Roma, ma per tutta l’Italia: è uno strumento importante per fare il punto su un’emergenza che dopo tanti anni è difficile capire come possa essere considerata un’emergenza.

Evidentemente qualcosa di non emergenziale, occasionale, è intervenuto nel mondo a noi circostante e non solo. Ma quest’anno più che i numeri, sempre prioritari in tanti ragionamenti sulla questione migratoria, sono state le storie a farla di tutta evidenza da padrone. Le storie di due rifugiati di cui si occupa il Centro Astalli e che hanno raccontato la loro vita, la loro storia e la storia di padre Camillo Ripamonti, presidente del centro Astalli, che senza che lui volesse ha preso il sopravvento sul suo ragionamento, come sempre tanto chiaramente fermo e pacato nei toni, quanto preciso e privo di sconti sui punti più caldi della nostra realtà. Ma quando padre Ripamonti ha voluto chiedere scusa ai rifugiati per quel che non è stato fatto, non si è saputo fare o non si è potuto fare, lui, il misurato trentino, il religioso che non fa sconti ma neanche alza mai i toni, si è commosso, fino a non saper trattenere le lacrime. Lo stress di giorni difficili? I giorni di chi si occupa di temi così sono tutti difficili, tutti complessi, tutti stressanti. Ma la storia di uno dei due testimoni chiamati a raccontare la realtà di chi fugge dall’Africa verso l’Europa passando per la Libia lo potrebbe aver riportato ai giorni di Cutro, dando volti, sguardi, nomi, pupille a quelle parole: ciò che non abbiamo fatto, che non abbiamo saputo o potuto fare.

Era accaduto, poco prima che parlasse, che quel giovane africano giunto in Italia per fuggire alla guerra e all’epidemia di Ebola, raccontasse di come la tardata fuga da un lager libico gli avesse fatto perdere di vista il suo compagno di viaggio e di vita, da tantissimo tempo, da quando cercavano di raggiungere insieme la vita, al di là del Mediterraneo. Il suo amico, dopo averlo cercato per giorni, si era imbarcato. Quando è arrivato il giovane testimone ha scoperto che il suo amico non ce l’aveva fatta. Anche lui aveva un nome, una storia, come tutti i fuggiaschi che ce la fanno o non ce la fanno. Insieme al giovane afghano che ha raccontato il suo arrivo in Italia nel 2021 dopo aver perso tutto, anche il giradischi che si era costruito da solo, queste testimonianze hanno dato il senso di fondo di un incontro annuale che non trova il suo senso nel racconto dei numeri, dei flussi, delle statistiche, ma nella progressiva trasformazione del Mediterraneo da mare in barriera, e quindi in possibile luogo di conclusione di una storia millenaria di civiltà. Quella catena di Madonne di Porto Salvo, porto sicuro, ne sono soltanto una testimonianza, come lo è nel suo valore simbolico e fondante per la nostra civiltà mediterranea quella di Enea.

Ricostruendo il senso di quelle due testimonianze, che hanno portato nella sala anche qualcuno dei tanti che non ce l’hanno fatta, verrebbe da dire che il loro senso potrebbe essere riassunto così: “Sarebbe bello se ci poteste aiutare a casa nostra, perché vorrebbe dire che quelle case ancora ci sono, come la possibilità di viverci”. Così sapere che la popolazione complessiva dei “migranti forzati”, cioè di coloro che partono non per libera scelta, ha superato la soglia simbolica e globale dei 100 milioni, ha colpito, come ha colpito l’osservazione da cui è partita Bianca Berlinguer, che interloquiva con padre Ripamonti e il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Matteo Zuppi, e cioè che nell’ultimo anno sono giunti in Italia 170mila ucraini. Non si è avuta l’impressione di un’invasione, di un Paese messo da loro in ginocchio, tanto che il loro arrivo non ha determinato la proclamazione dello stato d’emergenza. Una scelta compiuta invece in questi giorni e che agli intervenuti evidentemente non è apparsa convincente. Tutto questo ha aiutato a capire cosa succeda, come i dati sul fabbisogno di manodopera rilevato da Confindustria e Coldiretti e che le misure adottate non soddisfano. La riduzione dei meccanismi di protezione per i migranti forzati aiuterà? Ho avuto la sensazione che come in anni passati anche oggi l’idea prevalente fosse che non aiuterà. E non solo perché per presentare la domanda di asilo si entra in un meccanismo tremendamente complesso e anche poco onorevole, stando a quel che è stato raccontato durante alcuni interventi, ad esempio da Bianca Berlinguer, ma perché come ha ricordato il cardinale Zuppi questi sono diritti, che a suo avviso non vanno confusi né equiparati ai desideri.

Ma senza il momento di commozione di padre Camillo Ripamonti la presentazione sarebbe rimasta un discorso, non la presa d’atto di una sfida alla storia e alle civiltà del Mediterraneo. Proprio come ha detto papa Francesco nel suo recente viaggio a Malta. Così quel momento apparentemente emotivo ha dato ai presenti la dimensione di un confronto con la stessa idea di futuro in un momento che non è di un’epoca di passaggio, ma di un passaggio d’epoca, quindi un confronto da affrontare consapevolmente. Infatti ha colpito molti degli oratori un messaggio trasmesso durante la presentazione del rapporto nel quale si detto: “abbiamo bisogno di visioni più che di televisioni”. Il rapporto del Centro Astalli merita dunque di essere letto per crescere in consapevolezza di con ci sia in gioco. E chi vuole, può farlo cliccando qui).

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