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Cristiani nel Medio Oriente? Senza una risposta spirituale non c’è futuro. L’incontro di Nicosia

Il cristianesimo rischia di sparire presto dal mondo arabo. L’incontro di Nicosia promosso dalla Roaco l’ha ribadito. Si tratta di una questione non può essere economica o mercantile, ma spirituale. Il commento di Riccardo Cristiano

L’incontro di Nicosia promosso dalla Roaco (Riunione delle opere per l’aiuto alle chiese orientali) ha nuovamente evidenziato il rischio di una possibile, prossima sparizione del cristianesimo e dei cristiani dal mondo arabo. Già parlare di cristiani d’Oriente spiega bene il disastro che ci rende partecipi dei guai di questi cristiani che sono molto più semplicemente arabi cristiani, come ha capito e definito anni fa papa Giovanni Paolo II nella sua esortazione apostolica “Una speranza nuova per il Libano”. I cristiani dei Paesi arabi sono protagonisti della cultura araba, scrisse, parteciparono al loro grande fermento rinascimentale ottocentesco, la Nahda: ma noi ci ostiniamo a chiamarli cristiani d’Oriente perché questo termine evoca la Questione d’Oriente, cioè la questione coloniale che si pose dopo il crollo dell’impero ottomano e con la quale si intese farne delle quinte colonne dell’imperialismo coniale occidentale. Ecco perché dell’incontro di Nicosia non si è avuta eco sui nostri media. Oggi non c’è un’emergenza terrorista islamista contro la quale agitare lo spettro della persecuzione dei “nostri fratelli cristiani d’Oriente”, e poi i regimi militari con i quali prediligiamo fare affari sembrano tranquilli e quindi…

Quindi il problema si pone in altri termini. Il primo termine riguarda il significato della presenza cristiana per la cultura e la società araba. Dopo una storia feroce e tremenda, la storia del Novecento arabo, i cristiani hanno dimostrato di essere le finestre della casa arabo musulmana. Quella casa tornerebbe a essere una casa senza finestre, chiusa su stessa, sul proprio interno, chiusa al mondo, se i cristiani sparissero.

Questo è il problema che ha evidenziato con la consueta lungimiranza e visione il patriarca caldeo Louis Sako quando ha ripetuto a Nicosia che occorre dividere politica e religione, operazione che la cultura araba dimostra urgente, ma che il ceto politico non vuole perché, privo di legittimità politica e sociale, pretende almeno quella che deriva dalla sottomissione benedicente della religione al potere politico. Così il ceto politico, figlio in realtà di una cultura tribale, impedisce la costruzione di una vera cittadinanza araba, riducendo i cristiani non a cittadini che hanno il diritto di partecipare al cambiamento dei loro Paesi, ma a minoranze tribali che devono aggrapparsi al potere esistente per essere protette.

Gli sforzi di papa Francesco per creare la cultura della cittadinanza non sono stati vani, il successo a livello di opinione pubblica è evidente, ma le gerarchie cristiane rimangono cesaro-papiste, cioè convinte che solo la protezione del potere possa garantire la minoranza cristiana in cambio della fedeltà. È così che il rischio di estinzione, come ha detto Jihad Youssef della Comunità siriana di Mar Musa, diviene concreto, perché impedisce “di far sentire noi cristiani figli di quella terra, come siamo stati da sempre”. Dunque è l’estraniazione perseguita dal colonialismo e dalla sua Questione d’Oriente e dal fondamentalismo fanatico, che ha analogamente fatto dei cristiani dei “non arabi perché non musulmani”, a porre il problema vero, urgente. Perché Dio ha mandato i cristiani a vivere lì? Se non si risolve questo problema, se non si risponde a questa domanda, la mira, l’obiettivo dei cristiani in Paese ormai quasi tutti falliti, dal Libano alla Siria all’Iraq all’Egitto, sarà inevitabilmente quello di fuggire, di venire in Europa. E quindi di estinguere la loro presenza araba nel mondo arabo.

Separare religione e politica vuol dire superare i lasciti del passato e costruire la comune cittadinanza e quindi la democrazia colorata d’islam come è colorata di radici cristiane la nostra idea di Europa e di democrazia. La questione che si pone è dunque di ridare valore di testimonianza evangelica nel contesto arabo-islamico alla presenza cristiana nella prospettiva di una più grande fratellanza, altrimenti non resta che la fuga “in Occidente”.

I cristiani hanno trasformato il mondo arabo da Beirut nell’Ottocento, introducendo i palazzi ad affaccio sui viali transitabili a piedi o in auto. Quei palazzi affacciati sui viali hanno reso necessaria la finestra e quindi lo sguardo sul resto della città, sui passanti, sul quartiere. Sono progressivamente scomparse le case chiuse su stesse, quelle con le finestre solo sul patio interno. Questa trasformazione della città è stata un’opera di cambiamento sociale e culturale epocale che ora richiede una nuova fase: costruire la società aperta arabo-musulmana.

Questa è l’impresa spirituale alla quale i cristiani sono chiamati. E questo richiede l’amore capace di liberare l’islam dal rapporto perverso con la politica, con i sultani impadronitisi delle repubbliche arabe. Altrimenti arriverà presto il giorno della scomparsa. Perché la questione della presenza cristiana non può essere economica, o mercantile, è spirituale.


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