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È davvero l’ora di un decoupling geopolitico? Scrive l’amb. Castellaneta

La visita di Lula in Cina ha riacceso i riflettori sui Brics, un forum che sta vivendo una sorta di seconda giovinezza. Ma attenzione: non siamo all’alba di una catastrofe per l’Occidente. Serve pragmatismo e realpolitik, anche all’Italia in vista della presidenza G7 del 2024. Il commento di Giovanni Castellaneta, già consigliere diplomatico a Palazzo Chigi e ambasciatore negli Stati Uniti

Nei giorni scorsi ha fatto discutere la visita del presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva in Cina. Il leader sudamericano, tornato in carica a gennaio, aveva riacceso le speranze dell’Occidente dopo che il regime di estrema destra di Jair Bolsonaro aveva allontanato il Brasile dalla comunità internazionale a suon di dichiarazioni razziste, negazionismo sanitario, e la ripresa della deforestazione dell’Amazzonia. Speranze che sono state però in parte disattese, dato che con le sue dichiarazioni Lula è sembrato smarcarsi dal rapporto con Europa e Stati Uniti. L’ex sindacalista ha infatti preso posizione contro l’Ucraina, affermando che gli Stati Uniti dovrebbero “smetterla di fomentare la guerra e cercare la pace con la Russia”; inoltre, ha rilanciato il progetto di una moneta comune dei Brics (di cui fanno parte anche Russia, India, Cina e Sudafrica) esprimendo l’auspicio di un’emancipazione dal dollaro per le transazioni internazionali. Come interpretare queste dichiarazioni? L’Occidente dovrebbe davvero allarmarsi rispetto al rischio di una frattura sempre più profonda con i Paesi emergenti?

Lo storico Niall Ferguson aveva coniato l’espressione “The West vs. the Rest” già alcuni anni fa, in tempi che non erano ancora sospetti rispetto alle crescenti tensioni internazionali a cui stiamo assistendo da circa un anno e mezzo a questa parte. Eppure ci aveva visto giusto, anticipando le incomprensioni tra un Occidente che rischia di arroccarsi nella difesa dei propri valori e interessi (seppur legittimi e condivisibili) e un resto del mondo che, non sentendosi sufficientemente coinvolto nei processi che definiscono la governance globale, si sta rivolgendo sempre più a una potenza come la Cina che si sta facendo promotore di un ordine alternativo a quello liberale plasmato da Stati Uniti e alleati. Ed è per questo che un forum che sembrava ormai obsoleto come quello dei Brics sta vivendo una sorta di seconda giovinezza, grazie a una convergenza di interessi tra i propri membri. Infatti, se da un lato si configura come una piattaforma funzionale a Pechino per estendere la propria influenza a livello internazionale, dall’altro può essere utile a potenze emergenti come il Brasile per portare avanti la propria agenda. Ovvero quella di una grande economia in espansione che ha bisogno di un Paese fondamentale come la Cina, dotato di un mercato enorme e di una immensa disponibilità di capitali spendibili in investimenti esteri.

La posta in gioco è certamente alta. Se l’Occidente dovesse perdere contatto non solo con la stessa Cina, con cui le frizioni geopolitiche ed economiche non potranno che aumentare nei prossimi anni (pensiamo a Taiwan), ma anche con gli altri grandi emergenti, ci potrebbe essere il rischio di rimanere isolati sul terreno di partite fondamentali come quella delle due grandi transizioni – quella digitale ed energetica – che hanno bisogno vitale di materie prime di cui questi Paesi sono molto ricchi. Tuttavia, queste dinamiche vanno considerate anche secondo un approccio realista e pragmatico. Innanzitutto, l’interdipendenza economica che lega ancora le principali potenze globali sarà dura da scardinare; quantomeno, anche nello scenario più negativo ci vorrà molto tempo per mettere in atto il decoupling di cui tutti parlano. E, come si diceva sopra, non è nell’interesse di Paesi come il Brasile chiudersi l’accesso ai mercati occidentali, quanto piuttosto il contrario, ovvero la volontà di mantenere buoni rapporti con quanti più partner economici possibili. Un elemento, quest’ultimo, che gioca a favore del mantenimento della supremazia del dollaro come principale valuta di scambio internazionale: il “biglietto verde” – piaccia o no ai suoi detrattori e ai “tifosi” di un nuovo sistema monetario basato sul renminbi cinese – è ancora la moneta più sicura e più comoda da usare per le transazioni tra Paesi.

Dunque, occorre calma e sangue freddo. A mio avviso non siamo (ancora) all’alba di una catastrofe geopolitica per l’Occidente; ma è necessario contrattaccare all’intraprendenza cinese con un atteggiamento non troppo diverso, ovvero basato su pragmatismo e realpolitik (ovviamente fino a dove questo sia possibile senza rinunciare ai nostri valori di fondo liberal-democratici). Un approccio che speriamo possa essere adottato anche dall’Italia, in vista per esempio della presidenza del G7 che toccherà nuovamente al nostro Paese nel 2024 vedendoci al centro in un momento cruciale per le relazioni internazionali.



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