Molti si aspettano che le europee del 2024 mettano fine ai vecchi equilibri, creando una nuova identità politica. È possibile che un aumento della frammentazione consenta alle famiglie politiche tradizionali di sopravvivere forgiando nuove alleanze, più o meno solide e durature, così come è invece possibile che assisteremo a un cambiamento completo di rotta a livello continentale. L’analisi di Stefano Silvestri, direttore editoriale Affari internazionali
La scena politica europea è stata dominata per oltre mezzo secolo dalle grandi famiglie europee di ispirazione liberale, cristiana e socialista, con poche variazioni legate a specifiche storie nazionali (come i conservatori britannici o i gollisti francesi). Nel tempo, queste grandi famiglie hanno cooptato altre realtà sia alla loro destra sia alla loro sinistra, mantenendo una sostanziale maggioranza.
Oggi però queste forze politiche sembrano in difficoltà e in diversi contesti nazionali esse sembrano perdere consenso, in genere a vantaggio di partiti di quella destra che un tempo si definiva “estrema”, ma che oggi viene piuttosto identificata con la qualifica di “nazionale”. Questa evoluzione si somma a quella già avvenuta in Europa in seguito al grande allargamento dell’Unione verso est, che ha accresciuto le divisioni e ha evidenziato molte differenze di percezione, anche all’interno delle famiglie politiche tradizionali.
Molti quindi si aspettano che le prossime elezioni parlamentari europee, nel 2024, mettano fine ai vecchi equilibri, creando una nuova identità politica europea. In realtà è difficile fare previsioni credibili. Certamente assistiamo a molti mutamenti politici nei singoli Paesi, ma non è affatto chiaro se questi riusciranno a coagularsi esprimendo una nuova leadership a livello europeo.
È possibile che un forte aumento della frammentazione politica consenta alle famiglie politiche tradizionali di sopravvivere alla crisi forgiando nuove alleanze, più o meno solide e durature, così come è invece possibile che assisteremo a un cambiamento completo di rotta a livello continentale. Certo è che attualmente le diverse espressioni delle destre nazionali non sembrano ancora esprimere una visione comune di ciò che dovrebbe divenire l’Unione europea.
Al contrario, la loro storia e le loro preferenze ideologiche sembrano suggerire per ora solo una crescente importanza delle singole priorità nazionali e quindi anche un indebolimento complessivo dell’Unione in quanto tale. Anche questa facile previsione tuttavia non può essere data per scontata. Moltissimo dipenderà dal contesto internazionale in cui ci troveremo a operare e dalle crisi con cui ci dovremo confrontare.
L’aggressione russa all’Ucraina, ad esempio, ha già portato a una divisione politica tra i Paesi del Gruppo di Visegrad, all’interno dell’Unione e in particolare a una forte differenziazione tra Ungheria e Polonia, che ha conseguenze anche al di là della sola politica estera e di sicurezza, riavvicinando la destra polacca alle posizioni delle forze moderate europee. Peraltro, la crescente minaccia russa sta provocando anche altre evoluzioni politiche.
Si pensi all’esempio dei Verdi e ai socialdemocratici tedeschi, alla grande tradizione di neutralità in Paesi come Svezia, Finlandia e così via. Mutamenti anche più significativi potrebbero dipendere dall’evolversi del quadro politico interno americano. Pensiamo ad esempio ad un ritorno alla Casa Bianca di esponenti repubblicani, meno disponibili a impegnarsi a pieno titolo, come sta attualmente facendo il presidente Joe Biden, per garantire la difesa e la sicurezza europea (oltre che per appoggiare la resistenza dell’Ucraina).
In questo caso, chiunque fosse responsabile delle scelte europee, si troverebbe di fronte ad un difficile bivio: andare verso un significativo rafforzamento delle capacità di autonomia strategica dell’Europa (raggiungibile solo attraverso una più stretta integrazione) ovvero tentare una difficilissima manovra di salvezza nazionale individuale che non potrebbe avere alcuna speranza di successo senza l’individuazione di un qualche “protettore” esterno (nel migliore dei casi gli stessi Stati Uniti, nel peggiore la Cina) a spese della tanto ricercata indipendenza nazionale.
Questo se un protettore fosse effettivamente disponibile. Altrimenti l’alternativa forzata sarebbe quella del piccolo cabotaggio nazionale ovvero (sul modello della Turchia di Erdoğan) l’avviarsi sulla strada perigliosa del mini-imperialismo straccione. Ma in tutti questi casi non si potrebbe più parlare di politica europea.
* Questo articolo è apparso sul numero di aprile della rivista Formiche