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L’inflazione, le gite scolastiche e la cultura

È necessario strutturare una visione politica che esalti le capacità culturali degli individui e non rincorra le soluzioni temporanee, attraverso la quale sviluppare quelle industrie culturali e creative che ora vengono sempre più spesso interpretate come componenti aggiuntive dell’offerta turistica. L’intervento di Stefano Monti, partner di Monti&Taft

Come riportato da un noto quotidiano nazionale, l’incremento generalizzato dei costi legati alle gite scolastiche sta diventando un problema di non poco conto per scuole e per famiglie, al punto che alcuni parlamentari hanno richiesto l’istituzione di un fondo per continuare a garantire a tutti tale diritto.

Un tale fondo, però, sarebbe invero del tutto iniquo: al centro dell’incremento dei costi c’è una spinta inflattiva, che ha in primo luogo spinto al rialzo il costo dei voli. E ovviamente, per costo dei voli si intende il costo dei voli delle compagnie Low-Cost. Volendo essere un po’ grossolani, quindi, si andrebbe incontro a questo tipo di situazione: l’istituzione del fondo sarebbe chiaramente destinata a coprire parte dei costi della gita d’istruzione per le persone che hanno un reddito più basso (cosa giustissima); tale somma, però, verrebbe investita in consumi turistici prevalentemente internazionali (compagnia aerea per volare in una capitale europea, trasporti dall’aeroporto al centro città, albergo, ecc.). In pratica, parte delle risorse pubbliche, raccolte con le tasse dei cittadini, non genererebbero alcuna economia nel nostro Paese, ma andrebbero a favorire le economie dei Paesi internazionali (elemento forse un po’ meno giusto).

Potrebbe aver senso adottare questo fondo nel caso in cui la compagnia aerea fosse italiana, condizione che permetterebbe quindi di investire questi soldi all’interno della nostra economia, ma non esistono compagnie aeree in grado di sfidare i giganti, e la nostra Alitalia, o Ita, o chissà come si chiamerà nei prossimi due anni, è tutto fuorché una compagnia low-cost.

L’opportunità sarebbe, certo, quella di organizzare, come fatto da alcuni presidi, delle gite scolastiche all’interno dei confini italiani, ma va non solo considerato che è lecito da parte degli studenti voler visitare Parigi, Madrid o Amsterdam, ma anche che in anche nel nostro Paese il costo dei viaggi è aumentato considerevolmente.

Si tratta soltanto delle prime, seppur importanti, avvisaglie di una dinamica che con molta probabilità diverrà purtroppo sempre più evidente: l’incremento generalizzato del costo della vita dovuto all’inflazione, non supportato da un adeguato incremento degli stipendi, produrrà necessariamente minori disponibilità economiche, le cui conseguenze dirette saranno principalmente riscontrabili in quei settori che i cittadini non considerano di “prima necessità”.

Tale dinamica, inoltre, arriva dopo un periodo di sostanziale crisi per l’intera economia, ed in particolar modo per il comparto turistico, condizione che, di per se, spinge l’intera filiera ad incrementare i prezzi per poter recuperare parte delle perdite subite negli ultimi anni.

A ben vedere, dunque, queste riflessioni non si limitano quindi al solo consumo di gite scolastiche, ma si estendono tendenzialmente al settore turistico nel suo complesso, e più nel dettaglio, alla componente dei consumi turistici rappresentata dalla domanda domestica.
Ma il tema si estende anche ai consumi culturali, sia perché nel nostro Paese sono correlati in modo robusto al consumo turistico, sia perché la domanda di prodotti e di servizi culturali è numericamente più fragile di quanto lo sia la domanda di servizi turistici.

Certo, esistono persone che decideranno di fare a meno delle vacanze per risparmiare soldi da destinare a mostre, libri, e teatri, ma, ad occhio e croce, è facile immaginare che queste persone rappresentino una minoranza.

Stando così le cose, dunque, è evidente che la risposta a questa problematica non possa essere univoca. Così come è chiaro che, qualunque sia la risposta che si voglia fornire, debba prevedere una forte connessione strategica tra soggetti pubblici e privati.

Una risposta che, si badi bene, non può prevedere la sola previsione di qualche fondo straordinario, perché lo scenario che si sta delineando punta sempre più a dotare tali condizioni di connotati strutturali. E utilizzare risorse straordinarie per arginare un problema strutturale è una strategia efficace soltanto se si ha l’intenzione di arginare temporaneamente gli effetti del problema, così da poter identificare delle valide soluzioni.

Pur volendo ammettere un immediato arresto delle dinamiche di inflazione, considerando la struttura del nostro mercato del lavoro, saranno necessari anni prima che il potere d’acquisto dei cittadini ritorni a condizioni pre-Covid.

A fronte di questo scenario temporale, quindi, è opportuno tenere in considerazione alcuni punti di riflessione che, seppur non risolutivi, possono quantomeno aiutare ad estendere il dibattito.

In primo luogo, i soggetti pubblici e privati impegnati direttamente sul versante culturale devono interpretare queste condizioni come lo scenario in cui avviare quella che potrebbe essere definita come una battaglia commerciale: se le risorse a disposizione dei cittadini si abbassano, devono quindi competere con altre forme di consumo o fruizione. Non una battaglia a suon di sconti, perché quella è la battaglia dei discount, ma una battaglia sulle reason why, sui benefici che l’esperienza culturale genera per i cittadini. Una battaglia anche culturale, perché spesso i consumi dei cittadini sono allocati in modo quasi inconsapevole da questi ultimi. Individuare quei consumi che recano bassi benefici ma che hanno un elevato costo aggregato, e sostituirsi ad essi (un esempio su tutti, le bevande alcoliche).

In secondo luogo, poi, il soggetto pubblico deve continuare in ogni caso a sostenere la cultura, e anzi, deve impegnarsi a garantire ai cittadini la presenza di un’offerta culturale eterogenea, andando tuttavia a finanziare progettualità che abbiano davvero un valore aggiunto per il territorio, e che siano il frutto di competenze tecniche, progettuali, economiche, e non solo relazionali.

Soprattutto, deve emergere chiara la comprensione di ciò che la cultura rappresenti per il Paese: negli anni si è assistito al passaggio, in alcuni casi sconcertante, da una visione di cultura come passatempo per persone agiate, ad una visione di cultura come riempitivo per le giornate dei turisti, disinnescando la maggior parte dei potenziali impatti che la cultura può avere sulla vita delle persone.

Strutturare una visione politica, che esalti le capacità culturali degli individui, e non rincorra le soluzioni temporanee, attraverso la quale sviluppare quelle industrie culturali e creative che per anni hanno visto nel nostro Paese un centro di eccellenza (dalla moda al cinema, dall’arte alla danza, dalla design al teatro), e che ora vengono sempre più spesso interpretate come componenti aggiuntive dell’offerta turistica.

Perché se non si investe sulle competenze, se non si struttura una filiera produttiva in grado di fornire reali possibilità di sviluppo, allora daremo ragione a chi sostiene che, nell’arco di pochissime generazioni, l’Italia è passata dall’essere un Paese di uomini di cultura e imprenditori, ad un Paese di camerieri e albergatori, senza voler in nessun modo mancare di rispetto a chi esercita queste professioni.

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