Gli Usa devono affrontare la sfida della Cina con più realismo e meno emotività. Troppa retorica potrebbe creare la percezione che la guerra sia proprio dietro l’angolo. È l’allarme lanciato dal capo di Stato maggiore congiunto delle Forze armate Usa, generale Mark Milley. Per Gregory Alegi un avvertimento non militare, ma politico…
La retorica di una prossima guerra tra Stati Uniti e Cina è “sopravvalutata”. E c’è da fidarsi se a dirlo è il capo di Stato maggiore congiunto delle Forze armate Usa, il generale Mark Milley, nel corso di una intervista con Defense One. In particolare, il generale ha messo in guardia dalla retorica pericolosa che le due superpotenze sarebbero “sull’orlo di un conflitto” a seguito di una imminente invasione cinese di Taiwan. Per il generale, infatti, occupare l’isola sarebbe un’operazione “estremamente difficile” per le forze militari di Pechino. Naturalmente, la situazione è lontana dalla stabilità, e Washington deve continuare a supportare Taipei con tutte le capacità militari di cui l’isola ha bisogno. “Penso però – ha detto Milley – che gli Usa debbano affrontare la questione con più realismo e meno emotività”, portando le Forze armate a dominare in tutti i settori per dissuadere Pechino “fin dall’inizio”.
Il pericolo della retorica
L’ottica del generale è in particolare orientata all’onda di panico che ha coinvolto in particolare i legislatori Usa a seguito della crisi rappresentata dall’apparire sui cieli statunitensi dei palloni aerostatici cinesi. Nelle ultime settimane i membri del Congresso hanno infatti rivolto al generale Milley e al segretario alla Difesa, Lloyd Austin, una lunga lista di preoccupazioni nei confronti di Pechino, dai chip all’arsenale nucleare. Nervosismi che hanno trovato il concorde sforzo dei due vertici, politico e militare, dello strumento difensivo a stelle e strisce per abbassare la tensione e ribadire che la guerra con Cina (e Russia) non né imminente, né inevitabile. “Penso che ci sia molta retorica che potrebbe creare la percezione che la guerra sia proprio dietro l’angolo” ha detto Milley, registrando che sebbene la possibilità di un incidente che porti all’escalation sia sempre possibile, “la retorica stessa potrebbe contribuire a surriscaldare l’ambiente”.
La lettura di Alegi
Per Gregory Alegi, storico e professore di storia americana e di studi strategici interpellato da Airpress, “la preoccupazione degli Usa nei confronti della Cina come competitore strategico ha ormai più di vent’anni. Numerose azioni stanno a testimoniarlo, dal Pivot to Asia di Obama agli accordi Aukus per i sommergibili, in chiara chiave di contenimento della sfida cinese nel Pacifico. Nulla di questo viene negato dal gen. Milley nella sua intervista”. Per Alegi, allora, la preoccupazione del generale sembra essere piuttosto quella “di una sfida autoalimentante nella quale le reciproche preoccupazioni dei due soggetti alimentano una corsa agli armamenti e un clima di tensione maggiore di quello naturale”. In questo senso, l’avvertimento “più che militare sembra essere di tipo politico, rivolto quindi a chi usa una retorica più incendiaria del necessario”.
La sfida su Taiwan
Per lo storico, allora, l’intervista al generale Milley deve essere letta su due livelli diversi. Il primo, esplicito, “è relativo alle capacità difensive di Taiwan. Il secondo, implicito, è la capacità degli Stati Uniti di proteggere l’isola e dissuadere la Cina dall’intervento armato”. A queste due posizioni corrispondono la necessità di riequipaggiare velocemente Taipei, “il cui margine qualitativo rispetto a Pechino va erodendosi, basti pensare alla rapidissima accelerazione cinese nello spazio, con tutto ciò che comporta per le comunicazioni e le osservazioni militari, o ai caccia di quarta e quinta generazione”. Da questo punto di vista, per Alegi, Taiwan non è riuscita a tenere il passo “con i cugini continentali, anche perché in passato le amministrazioni a stelle e strisce hanno tentato di non provocare la Cina”. Oggi questo si traduce in una relativa arretratezza o complessiva parità tra i due Paesi. “Questo senza trascurare i rapporti puramente numerici, come abbiamo visto in Ucraina anche una forza relativamente meno avanzata può ottenere successi parziali semplicemente tentando di saturare i sistemi avversari”.
La corsa tra aquila e dragone
“L’altro aspetto, quello americano, riguarda invece la quantità” ha continuato Alegi. “Non c’è dubbio che i sistemi Usa siano largamente superiori a quelli cinesi”, ma i numeri relativamente modesti, ulteriormente ridotti dagli invii di materiali in Ucraina, “rendono più che lecita la domanda sulla capacità Usa di affrontare due guerre di grandi dimensioni ancorché non necessariamente avanzate”. Per lo storico, i dati sul consumo di proiettili di artiglieria o missili Stinger “sono probabilmente solo la punta dell’iceberg dei problemi di forze armate che per quindici anni hanno combattuto contro avversari qualitativamente e numericamente inferiori”. Da questo punto di vista “gettare acqua sul fuoco in pubblico – come sta facendo Milley – può servire a prendere tempo per ripensare e ribilanciare lo strumento militare statunitense, nonché per rinforzare gli alleati chiave in quello scacchiere come Giappone e Corea del Sud”.
Lo sguardo di lungo periodo di Milley
“Più che negare la competizione con la Cina, mi sembra che Milley suggerisca di non allarmare i cinesi per non innescare una spirale competitiva alla quale gli USA al momento non sono pronti”, ha concluso Alegi, aggiungendo come “questo fatto, frutto di almeno trent’anni di decisioni e amministrazioni precedenti, non muterebbe neppure con un cambio di inquilino alla Casa bianca”, perché “costruire fabbriche, approvvigionare materiali strategici, ridisegnare le catene di fornitura e altri aspetti sono processi che richiedono molti anni, scavallando inevitabilmente il quadriennio di questo o quel presidente”.