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Cosa cerca Erdogan nel caos israelo-palestinese

Sulla denuncia di Erdogan alle attività israeliane contro i palestinesi si intravedono i nuovi equilibri tattici del Medio Oriente. Interessi incrociati tra Ankara, Gerusalemme, Abu Dhabi e Riad

Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha rapidamente condannato l’irruzione della polizia israeliana nella moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, che ha portato a scontri con i fedeli, definendo gli atti di mercoledì una “linea rossa” per la Turchia. È una sottolineatura di valore strategico, perché serve a dare un ruolo a Erdogan — e di riflesso ad Ankara — nel mondo musulmano, e dunque può anche essere utile in questa fase in cui il presidente turco cerca di stabilizzare ciò che rimane del suo consenso interno in vista delle prossime elezioni. Ma interessa anche vari altri attori geopolitici regionali.

Narrazioni e interessi

“Condanno gli atti vili contro la prima qiblah dei musulmani in nome del mio Paese e del mio popolo e chiedo che gli attacchi cessino al più presto”, ha dichiarato Erdogan in un discorso tenuto in occasione della cena per la rottura del digiuno. Già, perché il raid della polizia israeliana nella moschea è avvenuto durante il mese sacro musulmano del Ramadan e alla vigilia della Pasqua ebraica, alimentando i timori di ulteriori violenze nel complesso della moschea — un punto altamente sensibile del conflitto israelo-palestinese.

“Il nome di tutto questo è politica della repressione, politica del sangue, politica della provocazione. La Turchia non potrà mai rimanere in silenzio e indifferente di fronte a questi attacchi”, ha dichiarato Erdogan. “Mettere una mano sulla moschea di Al Aqsa e calpestare la santità dell’Haram al Sharif è una linea rossa per noi”.

Punti di riferimento

Il governo di destra israeliano guidato da Benajamin Netanyahu è completamente cosciente che il valore delle proprie azioni possa portarsi dietro reazioni del genere. Ma innanzitutto deve difendere la propria linea iper-securitaria, e poi sa altrettanto perfettamente che esse non modificheranno nel profondo il processo di riavvicinamento con Ankara. Anche perché quella è una dinamica di valore strategico per Israele, ma soprattutto per la Turchia — che in difficoltà economica maggiorata dal devastante terremoto di febbraio, ha molto più bisogno di partner che di rivali.

E allora, cosa muove Erdogan a usare certe parole? Il presidente turco da sempre cerca di aumentare il peso specifico del suo Paese all’interno del mondo musulmano — è questa la dinamica alla base dei vecchi dissidi con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, lungo la faglia tra le visioni islamiche sunnite. Erdogan vorrebbe che il suo islamismo e il suo Paese fossero il punto di riferimento dei fedeli musulmani nel mondo, ma i luoghi sacri sono sul territorio saudita. E allora sfrutta certe occasioni. E la questione palestinese ne offre: infiammata dal nuovo corso del potere esecutivo israeliano, marginalizzata negli interessi dei grandi Paesi arabi per via di un nuovo rapporto con Israele.

Opportunità, coincidenze, semantica

Il presidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Mohammed bin Zayed, nello stesso giorno in cui Erdogan tuonava la sua posizione (narrazione meglio dire), ha confermato l’impegno dello Stato del Golfo nei confronti delle relazioni con Israele in una telefonata con il primo ministro Netanyahu. I due hanno discusso del rafforzamento dei legami e concordato di “continuare il dialogo tra loro in un incontro personale nel prossimo futuro” — questo però lo hanno detto gli israeliani, mentre gli emiratini non hanno fatto cenno a incontri in futuro.

La telefonata segue una serie di mosse e commenti della coalizione di governo di destra di Netanyahu che hanno sollevato l’ira degli arabi e attirato la condanna degli Emirati, soprattutto per quanto riguarda la politica degli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata — con gli ultimi mesi in cui si è registrata un’impennata di violenza israelo-palestinese. Ossia, il contatto tra leader serve a tenere vivo lo spirito degli Accordi di Abramo. Contatto necessario perché a Gerusalemme c’è già chi si chiede che Netanyahu stia “facendo un pasticcio” con gli accordi, come scrive il Times of Israel.

Ed è proprio lì che Erdogan cerca spazio. Le dichiarazioni a favore dei palestinesi sono un terreno neutrale e accettabile per gli equilibri in corso (come lo furono ai tempi dei Mondiali in Qatar).

Il presidente turco ha disteso il rapporto tattico con Emirati e Arabia Saudita, ma non perde interesse nel rivendicare il suo ruolo a più lungo termine — pur cosciente dei limiti. Allo stesso tempo, Abu Dhabi e Riad — coinvolte in processi di contatto più delicati nei confronti di Gerusalemme — potrebbero non disdegnare le uscite turche, consapevoli delle leve che possono comunque muovere su Ankara, ma anche che essa a mani più libere nel criticare Israele. Infine Netanyahu: il primo ministro è consapevole che il suo governo ha visioni troppo spinte sulla questione palestinese — gli è stato fatto notare anche da Washington — e per questo assorbe critiche strumentali, anche perché ne comprende le dinamiche e sa che a Erdogan serve prendere quelle posizioni, ma anche (o forse di più) il sostengo israeliano.


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