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Perché premiare i Neet nel lavoro non è un bel messaggio. La versione di Mastrapasqua

La scelta del governo di “premiare” coloro che non risultano impegnati in un percorso di studio o formazione e in alcun tipo di lavoro rischia di confermare l’idea che andare all’estero possa essere meglio per chi vanta meriti o vuole acquisirne. Il commento di Antonio Mastrapasqua

Conviene assumere un ragazzo svogliato, piuttosto che un secchione. Se a orientare le scelte delle imprese fossero solo gli sgravi fiscali non c’è dubbio. Un “neet” conviene molto più di un “semplice” laureato. Il fisco è pronto a restituire il 60% del costo del lavoro a quelle aziende pronte a pescare nel mare dei “nullafacenti”. Così almeno se il primo maggio l’annunciato Decreto lavoro confermerà le indiscrezioni diffuse.

Il termine neet è un acronimo della frase inglese “Not in Education, Employment or Training”. In sostanza, neet sono quei giovani (al di sotto dei 30 anni) che al momento non risultano impegnati in un percorso di studio o formazione e in alcun tipo di lavoro. Una versione aggiornata di quei giovani “choosy” (letteralmente: schizzinosi), la cui definizione rese ancor meno simpatica Elsa Fornero, facendo passare persino in second’ordine quella riforma previdenziale che le è stata imputata come colpa assoluta.

Tomaso Padoa Schioppa aveva preferito l’italianissimo “bamboccioni”. Ma in ogni caso era rimasto uno stigma verbale nei confronti dei giovani che non fanno nulla perché preferiscono farsi mantenere (bamboccioni) o perché ritengono ogni impegno al di sotto dei loro meriti (schizzinosi). Ma oggi, nella nuova opportunità offerta ai “neet” sembra definitivamente scomparsa ogni remora. Non fare nulla non è più una “colpa”. Può essere un vantaggio.
Non far nulla può essere persino conveniente. Sarebbe facile collegare questo segnale con la vicenda di Luigi Di Maio, “colpevole” di aver ricevuto l’incarico di rappresentante Ue per il gas nel Golfo Persico. Ma è una tentazione da evitare: in verità Di Maio non è stato in panciolle sul divano di casa. Ha preferito le poltrone, e questo va posto a suo merito. Tutto il resto riguarda un giudizio sull’Unione europea e su Josep Borrell. E sui loro criteri di scelta.
Chi coltiva i valori della meritocrazia dovrà chiedersi se vale la pena studiare per anni e magari farsi dure esperienze diplomatiche sul campo e negli uffici della Farnesina, ma non può prendersela con l’ex leader del M5S.

La scelta del governo di “premiare” i “neet” è invece persino più spinosa. Impegna una “politica”, un intervento. E rischia di non essere un buon messaggio. O addirittura può confermare l’idea che andare all’estero possa essere meglio per chi vanta meriti o vuole acquisirne.

Poi ci si può piangere addosso sulla fuga di cervelli. Ma premiare i “neet” vuol dire discriminare i “non-neet”. Si può usare ogni tanto un eccitante sul mercato, ma drogare quello del lavoro potrebbe essere letale. Invece che promettere l’ennesimo bonus – perché di questo si tratta per le imprese che scelgono i “neet” – sarebbe meglio avere il coraggio di semplificare e alleggerire i flussi di entrata e uscita. Augurandosi poi – perché il sospetto c’è – che non stia avvenendo una involuzione culturale che qualcuno vede segnalata dal fenomeno delle “grandi dimissioni”, che contagia un po’ tutti i Paesi occidentali. Il lavoro potrebbe finire per diventare un disvalore. Non sarebbe la nuova versione dell’utopia “lavorare meno, lavorare tutti” che ha dimostrato la sua inconsistenza. Sarebbe piuttosto il sigillo della “decrescita felice”, per chi ci crede ancora.

Se la Repubblica italiana non fosse più fondata sul lavoro, che cosa ci resterebbe della Costituzione più bella del mondo?

 

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