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Mai più la guerra. “L’appuntamento” visto da Ciccotti

Lo splendido “L’appuntamento” (2022) della regista macedone Teona Strugar Mitevska ci fa riflettere sul perdono come unica medicina contro l’odio. Uno stile avvolgente, documentario e surreale al tempo stesso, tra Luis Buñuel e Jan Němec

Dettagli di bulldozer avvolti nella polvere mentre demoliscono dei fabbricati danneggiati dalla guerra. Si edifica un nuovo quartiere. Una donna è seduta su un muretto e li osserva. Noi scorgiamo solo i suoi piedi, scarpe basse, e un pezzo del suo vestito estivo, colorato, sopra al ginocchio. Stacco. La donna sta camminando per la città (a metà film sapremo che si tratta di Sarajevo).

La camera a mano la segue di spalle. Vediamo i suoi capelli biondi, lisci, raccolti. La sua sagoma snella e il vestito colorato sfilano veloci tra vie e negozi un po’ datati nelle insegne e vetrine. Arriva in un grande hotel con saloni e alte finestre che si aprono su ampie terrazze. Finalmente ecco il suo volto: un naso tagliato dritto, uno sguardo serio: una donna sulla quarantina.

Vi sono molti convenuti di diverse età. Capiremo che sono coppie di sconosciuti, di single, che lì si incontrano a cura di un’agenzia che si occupa di trasmettere far incontrare persone per avere“Amore e Volersi Bene”. Alcuni sono stati “accoppiati” dalla agenzia, qualcun altro, come quelli che pian piano si presentano come i due protagonisti del film, si sono “trovati” da soli. O meglio lui, Zoran, ha fatto sì che una donna abitante in una certa via della città, sia quella che cercava. È Asja, la bionda che lo spettatore ha seguito sin dalle prime immagini mosse.

L’incontro gestito da alcune donne-guida dei convenuti. Sono formatrici a metà tra amanti della psicologia divulgativa e pedagoghe da centro anziani. Dopo aver diviso i presenti in coppie, e fattili sedere due per ogni tavolo, iniziano con la procedura. Le coppie, per conoscersi, debbono reciprocamente interrogarsi e rispondere a delle domande del tipo: “Quale stagione preferisci?”; “Ami più la mattina o la sera?”. Oppure, “Ora fate tre dichiarazioni, che tutti ascoltino, inserendone una falsa che gli altri dovranno poi individuare”.

Il centro del racconto di “L’appuntamento” (2022) della macedone Teona Strugar Mitevskaa è l’incontro tra Asja (una tesa e criptica Jelena Kordic Kuret) e Zoran (Adnan Omerovic, una recitazione sospesa, nel vuoto mentale, alla J. L. Trintignant di L’homme qui mente di Alain Robbe-Grillet). Zoran, che ha nascosto di esser sposato, è lì perché intende porre alla donna una semplice domanda: se è lei quella persona che in un giorno preciso del 1993 era in casa. L’uomo è colui che le ha sparato, ferendola e uccidendo altre persone, all’interno dello stabile popolare. Ora, intende chiederle perdono. Sì è lei. La donna è esterrefatta. Gli manifesta tutto il suo odio e disprezzo. Gli grida che lei aveva solo sedici anni e che finì in coma per mesi. Che non vuole perdonare uno che, anche se diciottenne fu “costretto” a fare il cecchino contro i suoi concittadini.

In uno scatto di isteria vendicativa Asja, in una sequenza successiva, chiude a chiave la porta del salone e costringe tutti i presenti ad assistere a un processo, da lei messo su, contro Zoran. Lo fa legare a una sedia, mani e piedi, con strisce di stoffa ottenute dalle bianche tende strappate dalle finestre; gli mette un cappuccio in testa. E poi, agitata, racconta a tutti, formatrici e convenuti, come “quest’uomo” abbia sparato contro il suo palazzo per settimane, uccidendo persone, e ferendo lei, che ancor oggi, dopo trenta anni, si porta dentro i segni del trauma.

Alcuni dei presenti, eccitati dalla sofferenza di Asja, vanno rapidi verso Zoran e iniziano a schiaffeggiarlo, picchiarlo sulla testa, imprecandogli contro, sino a che uomo con la barba nera, grida: “Basta, fermi! Non vedete che sta tutto ricominciando! Violenza chiama violenza”. Tutto si calma.

I presenti, lentamente, lasciano il grande salone. Zoran è stato slegato dalla sedia. La donna e l’uomo solo soli. Asja chiede scusa, in un pianto liberatorio. Zoran la saluta ma lei non può fare a meno di abbracciarlo. L’inquadratura finale, in campo lunghissimo, è su Sarajevo che dall’imbrunire passa lentamente al buio della notte. Ora, una ad una, simbolicamente, si accendono, qua e là, delle sparute luci.

Mitveska, con la camera mobile a mano, a bruciare su corpi, a sfocare sui dettagli, a seguire i personaggi quando hanno bisogno di prendere aria sulla terrazza, vuole entrare dentro l’anima e i pensieri di Asja e Zoran. Mitveska costruisce un drammatico kammerspiel, con rimandi a Luis Buñuel e Jan Němec, tra chiuso e aperto, tra solitudine e desiderio dell’altro, tra quotidiano e sogno. Ma Mitveska ci dice, soprattutto, che se vogliano scacciare i fantasmi che intorbidiscono la mente, liberarci dall’ossessione del male subìto, dai brutti ricordi che slabbrano l’anima, dobbiamo sposare, senza esitazione, il perdono.


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