La linea che Giorgia Meloni sta sviluppando è ben lontana dalle sue parole d’ordine solo di qualche mese fa. Si pensi al rapporto con Mario Draghi. Basterà? Nel mentre, scelga se seguire la parabola discendente di Matteo Renzi, di Matteo Salvini o dello stesso Beppe Grillo, oppure aprire una fase nuova nella storia d’Italia. Il commento di Gianfranco Polillo
Il rischio è il diabolico perseverare nell’errore. Il non tener conto cioè delle disavventure capitate ad altri leader politici, ma tutte identiche nella loro dinamica. Matteo Renzi, con una politica forse più furba che intelligente – quegli 80 euro in busta paga per i ceti più sofferenti – aveva portato il Pd, alle elezioni europee del 2014, a conquistare la soglia del 40,81 per cento dei consensi. Il massimo nei confronti degli altri Paesi europei, ma soprattutto una percentuale da capogiro nella storia della sinistra italiana. Fin dai tempi in cui il PCI dominava la scena politica.
In quelle stesse elezioni, i 5 stelle, che l’anno precedente alle politiche avevano ottenuto il 25,6 per cento dei voti al Senato ed il 23,8 al Senato, si erano fermati al 21,1 per cento. Risultato letto come si fosse trattata di una mezza sconfitta. O comunque il segnale, da molti atteso, di un Movimento fin troppo effimero. Come era stato quello di Guglielmo Giannini, con il suo Fronte dell’uomo qualunque. Tesi destinata ad essere smentita clamorosamente di lì a pochi anni.
Nelle elezioni del 4 marzo 2018, il capitale politico, appena accumulato da Matteo Renzi, risultò completamente dilapidato. Il Pd ottenne, infatti, poco più del 18 per cento dei voti alla Camera e del 19 per cento al Senato. Mentre la vittoria andò ai 5 Stelle che divennero il primo partito politico italiano, con un consenso pari ad oltre il 32 per cento, nelle due Camere. Cosa era successo? Matteo Renzi, dopo l’exploit iniziale, aveva deluso.
La linea del suo governo, seppure particolarmente avanzata nei contenuti, non aveva convinto. Forse troppo moderna, dal punto di vista economico – sociale (si pensi solo al cosiddetto: job act), non era riuscita, a sintonizzarsi con lo schieramento composito, che lo aveva sostenuto alle elezioni precedenti. Aveva ottenuto l’avallo delle forze riformiste o di centro. Ma l’ostilità della sinistra – sinistra era risultata evidente, specie da parte del più conservatore dei sindacati italiani, quale la Cgil.
In più avevano pesato alcuni aspetti del suo carattere. Destinati a divenire particolarmente rilevanti in occasione del varo della riforma costituzionale elaborata. Più un plebiscito sulla sua persona, che non il referendum di cui all’articolo 138 della Stessa Costituzione. Nelle elezioni del 2018, quei nodi vennero al pettine. Il successo dei 5 Stelle fu il riflesso di una vera e propria emorragia di voti a danno del Pd.
Coloro che, all’inizio, avevano sperato nella novità rappresentata dall’ex sindaco di Firenze, si buttarono nelle braccia di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, nella speranza di giungere finalmente ad un cambiamento radicale del sistema politico italiano. Che invece non vi fu, a causa dei risultati complessivi di quelle elezioni, in grado di consentire solo un governo di coalizione: quella maggioranza giallo – verde unita solo nel nome del populismo, ma distante anni luce da una qualsiasi proposta di governo.
Contraddizioni, inevitabilmente destinate a moltiplicarsi in un estenuante braccio di ferro, che consentì a Matteo Salvini, sempre più leader di lotta e di governo, di poter crescere politicamente a danno dei suoi alleati – concorrenti. Nei 461 giorni di forzata convivenza, il peso della Lega divenne debordante. Al punto da ottenere, alle prime elezioni (le europee del 2018) un risultato strabiliante, con il 34,3 per cento dei voti (quasi il doppio rispetto alle precedenti politiche), mentre i 5 stelle scendevano al 17,1 percento. Con una perdita di oltre 15 punti. Più o meno pari alla metà del consenso ottenuto in precedenza.
Salvini aveva quindi vinto la scommessa. Non gli rimaneva altro da fare che tentare di andare ad elezioni politiche anticipate, per accrescere il suo capitale politico. Operazione che poteva pure riuscire, se avesse saputo adeguare i suoi comportamenti alle caratteristiche di una forza politica che non era più la vecchia Lega di Via Bellerio, ma qualcosa di inedito. In grado di riflettere le caratteristiche di un corpo elettorale che, nel frattempo, era cambiato. E che non chiedeva altro che di essere rappresentato sia sul terreno dei contenuti programmatici, sia negli uomini chiamati a realizzarli.
Ed, invece, non ci fu né l’uno, né l’altro. E di conseguenza quella gran messe di voti, così come era arrivata, se ne andò. Alla ricerca di un nuovo ancoraggio. Le elezioni del 2022 segnarono il trionfo di Fratelli d’Italia, il partito guidato da Giorgia Meloni ottenne il 26 per cento dei voti, tanto alla Camera quanto al Senato. Divenendo, pertanto, il primo partito del Centro – destra, che aveva vinto le elezioni con una percentuale pari a circa il 44 per cento dei voti espressi. Per comprenderne l’exploit va solo ricordato che alle elezioni europee del 2014, i suffragi a favore di Fratelli d’Italia erano stati appena pari al 3,7 per cento del totale. Al di sotto del previsto sbarramento, per cui non era stato eletto alcun deputato.
Le elezioni del 2022 avevano rinnovato la tradizione. Ancora una volta il nuovo, prendeva il posto del vecchio riproducendo uno schema, già sperimentato. Ma con una complicazione in più. Quella di una tradizione politica, com’era quella di Fratelli d’Italia, che mal si amalgamava con le caratteristiche della Costituzione italiana. Con il suo carattere democratico ed antifascista. Marcando una discontinuità profonda con quella lunga fase storica che, dal 1948 in poi, aveva segnato la vita nazionale. E che ora le opposizioni brandivano come un’arma per negare legittimità al nuovo Governo.
Ed ecco allora che la riflessione sullo stesso fascismo assumeva i toni accesi della battaglia militante. Con un’interpretazione ancor più manichea, rispetto ai tentativi passati di storicizzare il fenomeno per metabolizzarlo e quindi consideralo una delle tante varianti della storia nazionale. Operazione indispensabile per comprendere che quelle vicende furono il prodotto di eventi eccezionali che nessuno è in grado di replicare. Al di là della necessità della memoria, chi adombra ancora un pericolo fascista, lo fa solo per motivi di carattere strumentale. Mentre chi spera in impossibili rivincite storiche o si attarda nell’esaltazione di antichi elementi identitari vive in una nebbia, che offusca la ragione.
Quanti sono coloro che vivono in questa condizione tra i 170 mila iscritti a Fratelli d’Italia? Difficile dire. Ma ancora più improbabile è ritenere che gli oltre 8 milioni e passa di elettori che hanno votato per il partito di Giorgia Meloni, siano stati attratti dalla nostalgia di quel lontano passato. E così si ritorna al dilemma iniziale. Che voce avranno quegli elettori? Come potranno offrire un proprio contributo allo sviluppo di una linea non solo politica, ma culturale? Ed in che modo la “vecchia” linea del partito – quella forgiata durante gli anni di opposizione – dovrà cambiare?
Che un certo processo sia già avviato è nelle cose. La linea, che Giorgia Meloni sta sviluppando, è ben lontana dalle sue parole d’ordine solo di qualche mese fa. Si pensi al rapporto con Mario Draghi. Basterà? È solo un giusto inizio. Cui dovrà seguire quel rinnovamento del partito in grado di realizzare una sintonia con un corpo elettorale che non è più quello minoritario delle origini. Operazione non semplice, ma necessaria. Anche se incontrerà resistenze tra il nucleo storico dei più vecchi militanti.
Come mostrano quei fatti recenti che hanno riproposto alcune “sgrammaticature” – come Ella stessa le ha definite – nella valutazione di fatti storici lontani, ma ancora densi di suggestioni politiche. Essi dimostrano che all’interno del Partito si è aperta una fase di transizione, i cui esiti non sono scontati. Dipenderà quindi dal suo leader e dal suo più ristretto gruppo dirigente, scegliere la via da seguire. Ed in definitiva decidere se seguire la parabola discendente di Matteo Renzi, di Matteo Salvini o dello stesso Beppe Grillo, oppure aprire una fase nuova nella storia d’Italia.