Il responsabile delle sfide emergenti alla sicurezza dell’alleanza, sottolinea i rischi dell’app facendo riferimento alle leggi cinesi in materia di intelligence. Parole che risuonano anche a Roma
“Posso dire con certezza che non vedrete TikTok su una piattaforma di proprietà della Nato”. A dirlo è James Appathurai, vice segretario generale della Nato per le sfide emergenti alla sicurezza, in un’intervista al Forum internazionale della cybersecurity di Lille, in Francia. “Le ragioni sono molto chiare”, ha detto il funzionario canadese. “La Cina ha una politica di fusione civile-militare, il che significa che tutto ciò che è civile può essere usato per scopi militari”, ha continuato facendo riferimento alle leggi cinesi in materia di intelligence che richiedono alle aziende di aiutare il governo cinese a raccogliere dati (e di nasconderli se lo fanno).
Queste parole si inseriscono in un contesto internazionale segnato dalle preoccupazioni di diversi governi e agenzie d’intelligence occidentali per i legami tra TikTok e il partito-stato cinese. Gli Stati Uniti non escludono il divieto nazionale, dopo quello governativo, ma il presidente Joe Biden sta lavorando al suo “esercito di influencer”, tra cui TikToker, in vista delle elezioni presidenziali previste a novembre dell’anno prossimo.
Ad alimentare i sospetti, oltre alle leggi cinesi, ci sono le attività dei diplomatici cinesi dopo l’audizione di Shou Zi Chew, amministratore delegato di TikTok, al Congresso degli Stati Uniti. Infatti, i tweet pubblicati dai funzionari del governo cinese nei giorni a ridosso dell’audizione sono stati superiori a tutti quelli postati nei primi due mesi dell’anno mentre gli account dei media statali hanno pubblicato una trentina di storie propagandistiche su TikTok e la parola più utilizzata, “Cina”, è stata utilizzata il 50% in meno di “Stati Uniti“. A dirlo è un’analisi di Alliance for Securing Democracy. “Chew ha assicurato alla commissione che TikTok lavora in modo indipendente dal Partito comunista cinese, ma prima e dopo l’audizione il governo cinese ha stanziato ingenti risorse statali per difendere l’azienda, mettendo apparentemente in dubbio l’indipendenza di TikTok”, hanno scritto gli autori del rapporto.
Sviluppi che riguardano anche l’Italia. Le ultime parole del governo sono di inizio marzo. Dopo aver ventilato l’ipotesi di divieto ai funzionari pubblici, Paolo Zangrillo, ministro della Funzione pubblica (e a capo di un dicastero da 3,2 milioni di dipendenti), aveva fatto un passo indietro spiegando che “è opportuno approfondire il tema e capire se effettivamente esistono dei rischi legati alla sicurezza degli utenti di questo social” ma escludendo un piano per bloccare l’app in tempi brevi: “Assolutamente no anche perché, peraltro, non è decisione che spetti a me”, aveva dichiarato.
Il Partito democratico ha recentemente depositato una mozione per impegnare il governo Meloni “ad assumere il più celermente possibile decisioni in merito alla rimozione dell’app TikTok da tutti i dispositivi governativi alla luce degli evidenti rischi per la sicurezza dei dati ivi contenuti, sanando così il pericoloso ritardo che l’Italia ha accumulato rispetto alle decisioni assunte dalla Commissione europea e da numerosi altri Paesi”. Giace da più di tre mesi senza risposta anche l’interrogazione con cui Deborah Bergamini, deputata di Forza Italia, aveva chiesto a inizio gennaio al governo “quali iniziative intenda assumere” per approfondire le tematiche riguardanti TikTok, “anche al fine di valutare eventualmente (…) misure di limitazione dell’utilizzo dell’applicazione (…) pure sul territorio italiano, con particolare riguardo al suo impiego sui dispositivi in dotazione ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, per salvaguardare la sicurezza nazionale”.