Come muoversi in un sentiero ottimale, tra Scilla e Cariddi, al fine di evitare le differenti, ma concomitanti, insidie? Il commento di Gianfranco Polillo
Mentre la politica sembra arrancare – la brutta figura in Parlamento nel voto sullo scostamento di bilancio – il Paese mostra segni importanti di resilienza. Quasi nella stessa ora in cui si era consumato quel pasticciaccio, l’Istat certificava un piccolo miracolo. Quella crescita del Pil – dato ancora provvisorio – del primo trimestre dell’anno pari allo 0,5 per cento. Misura inaspettata non solo rispetto a precedenti previsioni, ferme a un modestissimo 0,1 per cento. Ma tale da suscitare un certo imbarazzo negli osservatori internazionali, costretti a prendere atto che l’Italia insieme alla Spagna erano cresciute più della Francia, con il suo modesto 0,2 per cento. Per non parlare della Germania, con la sua crescita zero.
Nei giorni precedenti non erano mancati giudizi allarmati sulla tenuta dei titoli italiani. Moody’s aveva paventato il declassamento, evocando il rischio: junk (spazzatura). Goldman Sachs si era spinto oltre, suggerendo di vendere i Btp. Consiglio per la verità non richiesto e quindi, per fortuna, poco ascoltato. In quest’ultimo mese, del resto, gli spread erano rimasti quasi stabili intorno ai 180 punti base. A dimostrazione che non sempre le grandi banche internazionali sanno leggere nei fondi del caffè, per predire il futuro. Gli ultimi dati Istat dovrebbero, pertanto, rincuorare e rasserenare.
Che l’Italia presenti problemi è indubbio. Se non vi fosse questa consapevolezza saremmo ancora al Conte II. Quelle manovre spericolate sugli immobili, bonus per tutti, che hanno lasciato un buco di 116,13 miliardi di euro, in grado di condizionare la finanza pubblica dei prossimi cinque anni. E ci deve dire bene. Per cui la sobrietà, per dirla con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, è scelta obbligata. Ma deve essere tale da non buttare il bambino insieme all’acqua sporca. Bensì decisioni oculate in grado di valutare tutte le possibili implicazioni. La più importante delle quali è l’esatta percezione del contraddittorio rapporto che intercorre tra la stabilità finanziaria di un Paese e la sua crescita economica complessiva.
L’esperienza storica, oltre che la teoria, dimostra che un eccesso ingiustificato di austerità, non solo ne comprime la crescita, ma finisce alla lunga per aggravare gli stessi problemi di finanza pubblica. Al tempo stesso l’irresponsabilità finanziaria, dopo le prime ventate di euforia (copyright di Alan Greenspan), tende a dare origine a momenti di crisi. Il problema è allora quello di muoversi in un sentiero ottimale, tra Scilla e Cariddi, al fine di evitare le differenti, ma concomitanti, insidie.
Se questa è la dinamica, i controlli del passato (deficit al 3 per cento e rapporto debito/Pil al 60 cento) hanno un valore relativo. Considerazione da tener presente nel valutare le recenti proposte della Commissione europea sulla riforma del Patto di stabilità e crescita. Nella nuova proposta di Regolamento il passaggio chiave è dato da un lato dall’uso di strumenti più semplificati nell’analisi e nel controllo del ciclo, dall’altro dalla costruzione di un rapporto più diretto tra le Istituzioni europee (Commissione e Parlamento) e i governi dei singoli Stati membri. Il tutto nella presunzione, enunciata fin dall’articolo 1 della proposta, di puntare sul più stretto legame che intercorre tra “sostenibilità del debito e una crescita” a sua volta “sostenibile e inclusiva”.
Principi, questi ultimi, che hanno fatto storcere il naso agli ortodossi, la cui preoccupazione, soprattutto tedesca, resta quella della assoluta preminenza dei requisiti della stabilità finanziaria. Costi quel che costi. Per cui non sarà facile trovare un punto di equilibrio in cui i diversi interessi e le differenti visioni possano convivere. Il che non significa, ovviamente, che l’Italia, più vicina alle posizioni francesi, non debba fare la sua parte, proponendo quelle modifiche che meglio rispondano a criteri di razionalità economica e meglio si adattino alle sue condizioni economiche e finanziarie. Che sono poi quelle della difesa della stabilità finanziaria, ma gestita in modo tale da non incidere più di tanto sul tasso di sviluppo complessivo, che rimane la chiave di volta per accrescere il benessere, contribuire alla soluzione dei suoi tanti problemi sociali, riportare il rapporto debito/Pil, come avvenuto in questi ultimissimi anni, lungo un sentiero discendente.
L’articolazione tecnica, che la Commissione propone, risponde a questi criteri? Non sembrerebbe. Dalle simulazioni effettuate, e ampiamente riportate dalla stampa, l’applicazione di quei criteri comporterebbe, per l’Italia, un drastico contenimento della domanda pubblica, (leggi manovra aggiuntiva) nell’ordine di diversi miliardi. “L’Italia”, ha scritto il Corriere della Sera, “dovrebbe ridurre il debito di 14-15 miliardi l’anno, pari allo 0,85% del Pil, se concordasse un piano di bilancio con impegni di riduzione dell’indebitamento in 4 anni. L’aggiustamento scenderebbe allo 0,45% del Pil pari a 8 miliardi all’anno nel caso di un aggiustamento in 7 anni, che è l’opzione ipotizzata per i Paesi ad alto debito pubblico, come l’Italia, per consentire una discesa più graduale”.
Difficile poter avallare simili prospettive. Le previsioni governative, riportate nel Def, indicano una progressiva caduta del rapporto debito/Pil nel periodo 2022/2026. In questi quattro anni si passerebbe, secondo le indicazioni programmatiche, dal 145,7 al 141,2, del Pil, con un contenimento pari a 4,5 punti. Non è sufficiente? E chi può assicurare che stringendo ulteriormente il cappio quel che si guadagna in termini di compressione finanziaria non si perda con una caduta, ancor più rovinosa, del prodotto interno lordo? Naturalmente le previsioni del Def, come tutti gli esercizi di questo genere, sono scritte sull’acqua. Ma la stessa osservazione vale per gli algoritmi usati dalla Commissione europea per valutare ex ante l’entità dello sforzo finanziario da compiere. Del resto le polemiche che, negli anni passati, hanno accompagnato la stima dell’output gap, al fine di calcolare il deficit strutturale di bilancio, qualcosa avrebbero dovuto insegnare.
Ma c’è forse un argomento in grado di tagliare la testa al toro. L’Italia appartiene a quel ristretto numero di Paesi dell’Eurozona che dal 2011 presenta un attivo sistematico delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. In testa alla classifica è stabilmente collocata la Germania con un attivo che è pari al 67,7 per cento del totale europeo. Seguono quindi i Paesi Bassi con il 16,7 per cento e poi l’Italia con il 7,6. Il Bel Paese, quindi, non è solo la seconda potenza industriale dell’Unione europea, è anche uno dei suoi principali esportatori. Conseguenza evidente, checché se ne dica, dell’esistenza di una produttività, a livello industriale, che ha poco da invidiare nei confronti dei suoi più diretti concorrenti, come la Francia o la Spagna. Invece è, purtroppo, il resto che non funziona o funziona male. A partire da una pubblica amministrazione che rappresenta una vera palla al piede per qualsiasi iniziativa non solo di carattere produttivo.
Ma, al di là di queste considerazioni, la persistenza dell’attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, che il Fondo monetario internazionale ipotizza fino al 2028 (35 miliardi di dollari annui in media), dimostra che la domanda interna, in Italia, è compressa da una politica economica e finanziaria più che prudente. Più vicina agli schemi dell’austerità che non a quelli del lassismo finanziario. Circostanza che andrà fatta valere nelle future discussioni con la Commissione europea: utilizzando al massimo le opportunità offerte dalle procedure sugli squilibri macroeconomici (Regolamento Ue numero 1176/2011) più volte richiamate nella bozza stessa del nuovo Regolamento. Ma finora rimaste fin troppo trascurate nel dibattito europeo.