Servono una cultura e una pratica all’altezza di ciò che il dettato della nostra Costituzione assegna al ruolo del lavoro. Il commento di Raffaele Bonanni
Ieri un giornalista mi ha chiesto del perché in Francia i sindacati sono insieme a coloro che organizzano vere e proprie rivolte, invece in Italia non c’è nulla di tutto questo. Gli ho risposto che il fenomeno delle “rivolte” sociali in Francia è sbagliato, non perché le motivazioni siano sempre errate ma perché destinate a obbiettivi estremi portati naturalmente a fuochi di paglia.
Divampano spontanee in fretta e in pochi giorni nel velleitarismo si spengono; sono provocate da rabbia dovuta ad annosi problemi irrisolti e, rimanendo tali, anche dopo la lotta rimangono tali e quali. Poi ripiegano nella frustrazione e gonfiano i palloni del populismo. In Italia il sindacalismo e il sociale in generale, pur attraversati da culture antagoniste e populiste, hanno sempre conservato al proprio interno una consistente parte di riformisti: realtà convinte di agire nella autonomia della propria funzione e perciò in grado di dialogare con imprese e governi, condividendo nella mediazione interessi, visioni e scelte, le più adatte per i cittadini-lavoratori dentro quelli generali.
Ma questa dinamica si è guastata soprattutto a causa dell’allargarsi del populismo nell’ambito politico, che come si sa non ama l’intermediazione tanto utile alla buona regolazione delle istanze sociali ed è invece portata com’è a occuparsi di tutto, per non concludere nulla. Dunque, in assenza di luoghi di confronto, si notano già i segni di involuzione nei corpi intermedi. Mentre è clamoroso ma coerente per sé stessi che le storiche realtà dell’antagonismo sindacale sembrano più che attratte alla saldatura proprio con i fautori della cancellazione del ruolo di parti sociali e corpi intermedi in generale.
Abbiamo già costatato nel recente passato che una parte consistente del sindacato ha rifiutato persino un confronto con Mario Draghi, un interlocutore di primo piano disposto a un patto sociale, preferendogli un sciopero senza seguito e senza senso. Ora gli stessi reclamano un confronto vero con il governo Meloni, ma la postura assunta è già sbagliata giacché nella logica e nella filosofia di un sindacato moderno e riformista, il confronto non avviene con un governo che propone e un sindacato che dice no a ogni cosa. Non è producente per ottenere condizioni positive far presente una serie di rivendicazioni che però non si misura con crescita, con la riorganizzazione del mercato del lavoro e della organizzazione produttivistica del lavoro, come della riassetto delle politiche attive nel quadro di un efficiente welfare. Da questo insieme di questioni e della sua chiara valutazione di insieme dipenderà la vicenda del salario che crescerà con meno tasse e più produttività, le tutele del lavoro saranno in piedi se si dovesse riuscire a ricostruire l’equilibrio tra diritti e doveri, il ripristino reale del ruolo costituzionale delle organizzazioni del lavoro se dovesse ricrescere l’attitudine a concepire ogni propria conquista da ottenere se in armonia con gli interessi generali.
Ecco la speranza da non perdere mai. Il nostro Primo Maggio dovrà saper ricordare il lavoro italiano nel miglior modo: moderno e dunque con lo sguardo orientato al futuro, pilastro per la nostra prosperità, in grado di esprimere una cultura e una pratica all’altezza di ciò che il dettato della nostra Costituzione assegna al ruolo del lavoro.