Ci sono volute le centinaia di pagine del Def per esorcizzare quello spettro che da tempo turbava i sogni di operatori ed economisti: la recessione. Possiamo guardare all’immediato futuro con minor trepidazione, specie se i prezzi al consumo si ridurranno dal 7,4% del 2022 al 2,7% del 2024. Ma vi sono poi una serie di elementi che consentono di fare chiarezza sulle tante polemiche che ancora caratterizzano il dibattito politico
Tanto tuonò, ma (per fortuna) non piovve. Ci sono volute le centinaia di pagine del Def – il Documento economico del governo – per esorcizzare quello spettro che da tempo turbava i sogni di operatori ed economisti. Quella recessione, da molti temuta e da qualcuno auspicata, non si presenterà. Ci sarà invece, almeno per l’Italia, una ripresina piccola piccola, che porterà la crescita del Pil all’1 per cento alla fine dell’anno e all’1,5 per cento l’anno successivo.
Con un modestissimo incremento (0,1 per cento) rispetto al “tendenziale”. A dimostrazione di quanto la prudenza sia stata la stella polare che ha guidato la mano dei tecnici del governo nell’allineare i numeri della previsione. Per la verità qualche incertezza rimane, specie per quanto riguarda le proiezioni al 2024, ma si tratta di scostamenti accettabili, specie considerando le incertezze del quadro internazionale: la guerra in Ucraina, la mancata normalizzazione degli scambi internazionali, l’inflazione e la politica monetaria sia della Fed che della Bce.
La variabile che più preoccupa è quella del commercio internazionale.
Che le stime della Banca d’Italia (Bollettino economico n. 2) prevedono in forte rallentamento. Gli scambi dovrebbero far registrare, nel corso dell’anno, una crescita dell’1,8 per cento contro il 5,4 dell’anno precedente. L’economia italiana, almeno nel primo trimestre del 2023, ha reagito, comunque, piuttosto bene. Le esportazioni sono cresciute, mentre le importazioni, a seguito del forte calo dei prezzi delle materie prime energetiche, hanno pesato molto meno.
Di conseguenza le partite correnti della bilancia dei pagamenti sono tornate in attivo. Dato da non trascurare. Nel 2022 il deficit era stato pari ad oltre 25 miliardi di euro, quando l’anno precedente il surplus era stato più del doppio: quasi 55 miliardi. Con una differenza complessiva di oltre 80 miliardi. Corrispondenti ad oltre il 4 per cento del Pil. Il prezzo pagato per le politiche di aggressione da parte della Russia, che hanno scatenato il cigno nero della crisi.
Va quindi da sé, che quest’ultimo dato – a causa del prezzo dei prodotti energetici – rappresenti ancora oggi la principale “variabile indipendente”. Per l’anno in corso il Def ipotizza un prezzo medio per il petrolio Brent pari a 82,3 dollari al barile. Attualmente e dopo i tagli nella produzione decisi da Opec + (un favore alla Russia), il prezzo è passato dai 71 dollari al barile (marzo 2023) agli 86,6 di venerdì scorso. A dimostrazione di quanto possa cambiare rapidamente un’incerta congiuntura.
Che rischia di far male ad un paese come l’Italia. Negli ultimi 10 anni, a partire dal 2013, il peso della componente estera (export + import) sul Pil, secondo i dati di contabilità nazionale ai prezzi di mercato, è passato dal 54,9 al 75,8 per cento. A dimostrazione di quanto sia forte la sua integrazione. Il che dovrebbe far rapida giustizia di quelle tesi che si rifanno, seppure in modo inconsapevole, agli schemi dello “strapaese”: la corrente politica letteraria che circolò in Italia nel primo dopoguerra.
Ad un’apertura così pronunciata, negli ultimi anni, ha corrisposto un crescente attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, che hanno segnato il passaggio da un’originaria posizione debitoria nei confronti dell’estero ad una creditoria. Nel quarto trimestre del 2021 i crediti concessi all’estero dall’Italia (posizione patrimoniale netta) rappresentavano l’8,3 per cento del Pil. Per un valore pari a 149 miliardi di euro. Posizione poi ridimensionata (3,9 per cento del Pil) a seguito dell’inversione ciclica dello scorso anno. Gli ultimi dati, infine, inducono ad un pizzico d’ottimismo.
Nel quarto trimestre dello scorso anno, infatti, gran parte della caduta (circa 27 miliardi di euro) era dovuta all’apprezzamento del dollaro nei confronti dell’euro. Al netto di quel fenomeno, l’attivo dovrebbe risalire rapidamente oltre il 5 per cento del Pil. E crescere in prospettiva, se le valutazioni del Def, secondo il quale il saldo delle partite correnti dovrebbe passare da -0,7 per cento del Pil a +0,8 per cento alla fine dell’anno, risultassero fondate.
Ma perché è importante questo dato? Esso rappresenta uno dei vincoli principali per la politica economica. Un eventuale valore negativo della posizione patrimoniale netta nei confronti dell’estero indicherebbe l’esistenza di un eccesso dei consumi interni nei confronti delle potenzialità dell’offerta, legittimando di conseguenza politiche di carattere deflattive. L’opposto avverrebbe, ovviamente, nel caso di una posizione creditoria verso l’estero.
Dimostrerebbe che il sistema economico, incapace di utilizzare tutte le risorse esistenti, le mette a disposizione dell’estero. Tenendo a mente questo schema, si deve dire che a partire dal primo trimestre del 2020 l’andamento dei consumi interni, in Italia, è stato determinante, nel bene e nel male, per la crescita/decrescita del Pil. Sia nei momenti di deflazione (2020) che nella successiva ripresa (2021-2022), infatti, l’aumento dei prezzi (al netto dell’energia e degli alimentari), in Italia, è stato minore di quello della zona dell’area dell’euro. Un equilibrio che è stato possibile mantenere proprio grazie a quella posizione “forte” conquistata nei confronti dell’estero.
Ed è ancora questa caratteristica che consente di poter aumentare il deficit di bilancio, seppur di un modesto 0,2 per cento, che tuttavia corrisponde ad una maggiore disponibilità di risorse di quasi 4 miliardi. Con una manovra destinata a non determinare ulteriori traumi. Ma in grado di contribuire ad una riduzione del rapporto debito/Pil, dal 144,4 al 142,1 per cento: soprattutto per un effetto snow-ball. Vale a dire per la differenza tra il tasso d’interesse sul debito pubblico e la crescita del Pil nominale. A sua volta – quest’ultimo – destinato a crescere del 5,8 per cento (1 per cento crescita reale, il resto aumento dei prezzi).
Fin qui le coerenze interne del Def, che consentono di guardare all’immediato futuro con minor trepidazione, specie se i prezzi al consumo si ridurranno, secondo le previsioni, passando dal 7,4 per cento dello scorso anno al 2,7 del 2024. E se lo stesso tasso di disoccupazione scenderà, nello stesso periodo, dall’8,1 al 7,5 per cento. Ma vi sono poi una serie di elementi che consentono di fare chiarezza sulle tante polemiche che ancora caratterizzano il dibattito politico.
Sia i 5 Stelle, ma soprattutto Giuseppe Conte, non perdono occasione per denunciare la manovra del Governo, da loro considerata l’anticamera di una nuova austerità. A monte di tutto ciò i fasti, o le nefandezze, delle politiche sperimentate nella passata legislatura: dalla sconfitta della povertà, grazie al reddito di cittadinanza; ai bonus per l’edilizia, quale volano della ripresa produttiva. I dati, ora a disposizione, consentono di fare chiarezza. La forte crescita italiana nel biennio 2020/21 è stata soprattutto trainata dagli investimenti. Che sono risultati essere pari a quasi 5 volte la media europea nel primo anno e due volte e mezza nel secondo. Determinante il contributo offerto dagli interventi sulle abitazioni.
La loro quota sul totale degli investimenti passa infatti dal 29 ad oltre il 35 per cento degli investimenti complessivi. Con un contributo alla crescita del Pil pari, nel biennio, a circa 43 miliardi. Sembrerebbe essere la giusta base contabile su cui costruire la tesi di una politica virtuosa, capace di creare dal nulla ricchezza per il Paese, grazie alle insospettabili capacità manageriale di apprendisti stregoni, come sono state le maggioranze parlamentari di quel periodo. Sarebbe stato così se non vi fosse stato il lato opposto della medaglia.
Vale a dire l’esborso posto a carico dell’Erario che, secondo i calcoli del Def, ammonterebbe a ben 116, 17 miliardi di euro tra bonus del 110 per cento (67, 12 miliardi), facciate (19) ed altri interventi (30 miliardi). La resa in termini di Pil, misurata da rapporto tra la spesa sostenuta ed il maggior reddito prodotto, sarebbe stata quindi del 37 per cento. Una spesa di 100 per ricavare poco più di un terzo. Rispetto ad un moltiplicatore minimo pari ad almeno al 100 per cento, come dovrebbe essere di norma, non proprio un grande affare. Salvo per chi è riuscito a ristrutturare la propria abitazione a carico del prossimo.