Nonostante la vivace ripresa della crescita nel dopo pandemia, il governo per ricavare spazi di manovra in funzione della sua agenda economica deve confrontarsi, come negli anni bui della crisi debitoria, con la dura scelta delle aree in cui tagliare il sostegno pubblico per recuperare risorse da destinare al perseguimento dei suoi obiettivi. L’analisi di Salvatore Zecchini
Più che negli anni scorsi il Def 2023 dà la misura delle strettoie entro cui è costretta l’azione economica del governo nel triennio 2023-2025 a confronto con le ancora fresche promesse elettorali. Il programma che viene presentato si caratterizza per una grande prudenza nell’impatto quantitativo delle misure adottate e nello scenario economico assunto come riferimento di fondo e quale limite su quanto sia possibile spingere la crescita economica. Una prudenza dettata oltre che dai vincoli comunitari, dalla consapevolezza degli squilibri di fondo nella finanza pubblica, nel sistema di welfare, nell’accesso alle fonti energetiche e nelle infrastrutture essenziali per avanzare verso un’economia 4.0. Nonostante la vivace ripresa della crescita nel dopo pandemia, il governo per ricavare spazi di manovra in funzione della sua agenda economica deve confrontarsi, come negli anni bui della crisi debitoria, con la dura scelta delle aree in cui tagliare il sostegno pubblico per recuperare risorse da destinare al perseguimento dei suoi obiettivi. La durezza della scelta si coglie nello scaglionare l’attuazione delle promesse elettorali in un arco di legislatura, sempre prestando attenzione alle alternative populiste prospettate dalle opposizioni.
Si mira, pertanto, a ridimensionare gli aiuti fiscali concessi durante la pandemia e la crisi energetica, mentre si programmano nuove e limitate tutele per i più vulnerabili e nuovi stimoli per lo sviluppo produttivo. Naturalmente, la notevole dipendenza dal sostegno finanziario europeo impone di rispettare le direttive comunitarie sul contenimento del deficit pubblico e del debito, e di prepararsi al rigore del rinnovando Patto di Stabilità e Crescita. In tale impostazione l’attenzione preminente è posta non semplicemente sul sostegno della crescita ma sulla sua accelerazione oltre quanto registrato negli ultimi due decenni. Si tende nel contempo ad assecondare la discesa dell’inflazione e si auspica un recupero del potere d’acquisto delle retribuzioni che sia legato agli incrementi di produttività.
Si tratta di vere e proprie sfide che non verrebbero affrontate con i consueti approcci di crescita sospinta da disavanzi pubblici ed assistenzialismo, bensì spostando maggiori risorse verso lo sviluppo del potenziale produttivo e della competitività attraverso investimenti, innovazione, istruzione e riforme quali quelle della giustizia e del sistema pubblico. Le proiezioni governative dell’impatto di queste misure sulle grandezze macroeconomiche, peraltro, presentano un modesto incremento annuo del Pil reale (tra 1 e 1,5%) all’anno, un deflatore in calo gradualmente verso il 2% e una disoccupazione che scende lentamente dall’8,1% del 2022 al 7,4% nel 2025. Pesa su questo ritorno alle basse percentuali del decennio pre-pandemia il peggioramento del contesto internazionale. Il rallentamento delle economie americana ed europea, l’urgenza di ristrutturare il sistema energetico per emanciparsi dalla dipendenza energetica, le sanzioni economiche e soprattutto la restrizione monetaria resa necessaria dall’eccesso di liquidità nel sistema in congiunzione con una politica di bilancio necessariamente cauta, concorrono a frenare i ritmi produttivi e di investimento.
L’ambita accelerazione della traiettoria del Pil reale può, quindi, ottenersi solo come risultato dell’efficacia delle misure del Pnrr e dell’incisività delle riforme. Da entrambe il governo si attende un consistente incremento del reddito e del benessere degli italiani. Secondo le simulazione econometriche degli effetti, compiute dal Mef, l’accelerazione del Pil prodotta dalle erogazioni del Pnrr rispetto alla tendenza di base passerebbe da un punto percentuale nell’anno corrente a 3,4 punti nel 2026. Il motore sarebbe dato dagli investimenti privati, che si sarebbero espansi annualmente rispetto al tendenziale tra l’8% e il 13%, mentre non vi sarebbe un apporto significativo da consumi ed esportazioni.
L’aspettativa è che tra le missioni del Pnrr, la transizione verde abbia l’impatto maggiore (+2%), seguita da quella digitale (+1,5%) ed istruzione e ricerca (1,5%); a breve distanza, le misure per lavoro, welfare e coesione territoriale (1,3%); e quelle per le infrastrutture della mobilità. Non sorprende che, a livello di settori produttivi, il maggiore contributo alla crescita proverrebbe dalle attività di costruzione, seguite da quelle manifatturiere e dai servizi immobiliari e professionali, perché beneficerebbero della transizione verde e dell’effetto pervasivo delle tecnologie abilitanti legate alla digitalizzazione. Modesti, invece, i contributi dei servizi d’informazione e comunicazione, nonché di istruzione e pubblica amministrazione, benché chiamati a svolgere funzioni essenziali.
Queste proiezioni non tengono conto dell’effetto delle riforme, che naturalmente si manifesterebbe su un periodo più lungo e con esiti più incerti. Gli effetti delle cinque principali sono stimati al di sotto del punto percentuale, con l’eccezione delle politiche attive del mercato del lavoro (1,5%). Bisognerebbe attendere il 2030 per vedere impatti più consistenti specialmente per “istruzione e ricerca” (+3%) e pubblica amministrazione (+2,3%).
Se queste stime fossero una realistica anticipazione dello sviluppo futuro dovremmo aspettarci un vero boom economico, quale non si è visto per decenni. Ma a parte i margini di variazione o errore che accompagnano ogni esercizio econometrico, vi sono aspetti che fanno sorgere fondati dubbi sulla probabilità di un simile scenario.
A due anni dall’avvio del Pnrr si costata un’oggettiva difficoltà a realizzare i progetti disegnati e su cui si sono ottenuti i finanziamenti. Nel quadro costituzionale di frazionamento disfunzionale delle competenze tra l’autorità centrale e quelle periferiche, la ripartizione delle responsabilità di attuazione in presenza di forti disparità di capacità progettuali e gestionali ha determinato inefficienze, ritardi significativi ed incertezze sull’efficacia delle opere. Come era facilmente prevedibile e come attestato dall’ultima relazione della Corte dei Conti, sono emerse debolezze progettuali, pastoie da molteplicità di regolazioni, contrasti tra autorità, carenze di coordinamento tra enti, e addirittura mancata attuazione di alcune misure. Ad esempio, non vi è traccia di approfondite valutazioni sulla efficacia dei progetti per raggiungere gli obiettivi di rilancio economico, se non nei termini di generiche affermazioni.
Il governo è stato, pertanto, costretto a correre ai ripari, compattando al centro la governance della fase attuativa, tagliando tempi e regole per diverse autorizzazioni, e soprattutto riesaminando diversi progetti per stabilirne la congruità rispetto agli obiettivi e la fattibilità. Allo stato attuale sembra sempre meno probabile che si possa rispettare la tabella di marcia, e sempre più realistico attendersi una riformulazione di diversi interventi, non solo in funzione dell’innesto del piano RePower per il settore energetico. Al tempo stesso, sale il rischio di riuscire nel rispetto formale delle scadenze per la realizzazione degli interventi a discapito dell’efficacia del loro impatto.
Un primo segno di questo rischio si è manifestato nel capitolo delle riforme. Quella della giustizia si limita a intervenire sui tempi e sugli uffici giudiziari, non in profondità su tutta la catena dal reclutamento, all’iter processuale, organizzazione, costi della giustizia e verifica della performance. Nell’ambito della concorrenza, si resiste a intervenire per un’effettiva contendibilità del mercato. Nell’istruzione, si resta sempre ancorati ai vecchi schemi nelle materie e nei modi d’insegnamento. Ad esempio, quante ore di coding sono insegnate nelle scuole, in quali software sono addestrati gli studenti, come si migliorano le loro capacità matematiche e di logica, come si promuove il merito? Nel complesso le riforme sono impostate per modificare lo status quo in superficie piuttosto che in maniera organica.
Basteranno questo Pnrr e le misure complementari a innescare dal 2026 un boom economico e un avanzamento nel benessere? Allo stato attuale si conferma soltanto l’immagine di un Paese che si affanna a ottenere risorse, ma non sa impiegarle bene e in tempi accettabili. La causa è evidente: si trova imprigionato in una gabbia di assetti istituzionali, sociali e politici che tende a frenare ogni slancio verso il nuovo, a invischiare l’esecuzione delle opere, a impantanare ogni iniziativa innovativa in una palude di discussioni, veti multipli, polemiche inutili, scarsa conoscenza, burocrazia e soprattutto conflitti tra autorità, ricorsi alla magistratura e controricorsi. In breve, un assetto per destinare il Paese al declino.