La crisi armata in Sudan era attesa, perché tra le due formazioni militari interne la divisione del potere era appesa a un equilibrio instabile. Sebbene non sia ancora una guerra civile, c’è il rischio potenziale di un allargamento regionale delle tensioni e di un aggravarsi delle della situazione. Conversazione con Guido Lanfranchi, ricercatore specializzato sul Corno d’Africa del Clingendael Institute dell’Aia
Gli scontri in corso in Sudan in questi giorni sono il risultato di una competizione che va avanti da anni, e che si è intensificata particolarmente negli ultimi mesi. La sfida ruota attorno alla competizione per il controllo del Paese tra le Forze armate sudanesi (Fas) contrapposte alle Forze di supporto rapido (Fsr), una milizia creata dall’ex-dittatore Omar al-Bashir più di un decennio fa con l’obiettivo di garantire la sicurezza del proprio regime. Negli ultimi dieci anni, le Fsr hanno accumulato sempre più uomini, denaro e potere politico, arrivando a diventare un concorrente diretto per le Fas. Il Sudan si è quindi trovato in una situazione particolare, in cui di fatto il Paese ha due forze armate distinte, con strutture di comando separate e interessi politici ed economici divergenti: una destabilizzazione era attesa, fa notare Guido Lanfranchi, ricercatore specializzato sul Corno d’Africa del Clingendael Institute dell’Aia.
Il contesto
“Dopo la caduta di Bashir nel 2019, per diversi anni le Fas e le Fsr hanno messo da parte le loro differenze per proteggere il loro interesse comune: nelle parole di un attivista sudanese, quello di ‘salvarsi collo e ricchezze’. Una vera transizione verso la democrazia in Sudan avrebbe potuto portare alla condanna dei leader di entrambe le forze per le violenze commesse contro la popolazione, e alla confisca dei beni accumulati da entrambe le parti tramite il loro coinvolgimento illegittimo nell’economia del paese”, spiega Lanfranchi a Formiche.net. Per questo sia Fas sia Fsr avevano tutto l’interesse a bloccare questa transizione – come mostrato nell’ottobre 2021 quando, nonostante le divergenze di interesse tra le due parti fossero già evidenti, i due gruppi contrapposti hanno tatticamente unito le loro forze in un colpo di Stato che aveva bloccato la transizione verso la democrazia.
“Col tempo, però, le differenze di interessi tra le due parti sono diventate insostenibili, come si vede dagli scontri di questi giorni”, continua l’esperto. Perché? “Le Fas non tollerano l’esistenza di una struttura militare parallela, dotata di un suo potere militare, politico ed economico autonomo. Allo stesso tempo, le Fsr non hanno alcuna intenzione di rinunciare al proprio potere e sottomettersi al controllo delle forze armate regolari”, spiega. In poche parole, entrambe le forze sono in competizione spietata per avere una posizione dominante nella politica e nell’economia del Paese. “Si aggiunga – continua – un risentimento di fondo: le Fas vedono le Fsr come una milizia tribale, proveniente dalle periferie del Paese (a lungo discriminate), e composta da reclute con scarsa formazione militare e senza senso delle istituzioni”. Questo ulteriore elemento di contesto permette una migliore comprensione sulle radici dei combattimenti di questi giorni.
Cui prodest?
Non è ancora chiaro chi possa beneficiare di questi scontri. Se una fazione prevalesse chiaramente sull’altra, potrebbe imporsi e governare il paese, ma una vittoria netta di una delle due forze sull’altra in tutto il Paese pare essere molto difficile. Il rischio è che il Sudan diventi un altro di quei hotspot di destabilizzazione dove i fronti si equivalgono e si creano scontri protratti e un Paese spaccato come risultato. “Un gruppo che potrebbe beneficiare della situazione attuale è quello dei resti del vecchio regime di Bashir, in particolare gli islamisti. C’è chi dice che dietro questi scontri ci sia la mano di Ali Karti, leader islamista, che secondo alcune informazioni avrebbe convinto i piani alti delle Fas a scontrarsi con le Fsr, accusate dagli islamisti di avere abbandonato Bashir nel 2019, e così metterle fuori gioco”, spiega l’analista del think tank olandese.
Se la validità di queste voci è da verificare, è probabile che i resti del vecchio regime – marginalizzati dopo la rivoluzione del 2019 – cercheranno di utilizzare la confusione di questi giorni per rialzare la testa. “Intanto, mentre non è chiaro chi ci possa guadagnare, è molto chiaro chi ci perde da questo conflitto: i civili. La popolazione si trova nel mezzo degli scontri (il numero delle vittime civili continua a salire, sia a Khartoum che in altre aree del Paese, in particolare in Darfur), pur senza essere in supporto di nessuna delle due parti. Va infatti detto che una larga parte della popolazione vede di cattivo occhio sia le Fas che le Fsr, che si sono macchiate negli anni di crimini contro civili e che hanno costantemente ostacolato la transizione verso la democrazia”. Nel frattempo, fa notare Lanfranchi, ogni discussione politica è stata chiaramente fermata dagli scontri, e il peso dei leader politici civili è più ridotto che mai.
Che cosa c’è dopo?
È veramente difficile prevedere come si evolverà la situazione nei prossimi giorni o settimane. Fonti vicine sia alle Fas sia alle Fsr dicono che nelle prossime due settimane si potrebbe delineare un esito degli scontri, nella capitale e nel resto del Paese. Dichiarazioni abbastanza prevedibili, ma sempre da contestualizzare nell’equiparazione dei fronti in campo e nella propaganda di guerra. Per Lanfranchi, è possibile che i risultati siano diversi, con le Fsr per esempio favorite in Darfur, la loro roccaforte, e le Fas con più possibilità di successo a Khartoum e nel nord del Paese (dove comunque le Fsr si stanno rafforzando). “L’esito dipenderà anche dalle scelte di vari altri gruppi armati attivi in Sudan, che fino ad ora non hanno ancora preso posizione, ma che sono sempre più sotto pressione per schierarsi”.
L’esperto italiano della regione del Corno racconta che parlando con attivisti e cittadini sudanesi, è chiaro che gli scontri di questi giorni “non sono una guerra civile”. Per ora la gran parte della popolazione non supporta il conflitto, né è schierata chiaramente con alcuna delle due parti in causa – ne è solo vittima. “Purtroppo, però, sia le Fas sia le Fsr stanno cercando di attrarre supporto in qualsiasi maniera, creando un rischio di espansione del conflitto. In aggiunta, mentre queste ultime hanno la loro base di supporto (incluso su base etnica) in Darfur, le altre godono di maggiore supporto tra la popolazione delle rive del Nilo. Il rischio che il conflitto tra le due forze armate degeneri in una guerra civile tra questi gruppi deve essere evitato a tutti i costi”.
In termini di allargamento regionale del conflitto, il Paese vicino coinvolto più direttamente è certamente l’Egitto. “Un gruppo di soldati egiziani è stato catturato dalle Fsr, che hanno però promesso di cooperare per farli ritornare in Egitto. Nel confronto tra le due forze, il Cairo supporta nettamente le Fas, ma fino ad ora non ha dato segno di voler intervenire apertamente in loro favore. Il governo egiziano e il governo sud sudanese hanno offerto di mediare il conflitto, ma fino ad ora senza risultato. L’evoluzione della situazione in Sudan avrà anche ripercussioni molto importanti per gli altri Paesi vicini, ovviamente: Sud Sudan, Etiopia, Ciad, Repubblica centrafricana, Libia ed Eritrea, che stanno osservando con attenzione gli sviluppi nel Paese”, spiega Lanfranchi.