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Da Israele alla Russia tutti vogliono una pace (interessata) in Sudan

Attorno al dossier sudanese si muovono potenze regionali e interessi internazionali. La situazione critica a Karthum è oggetto delle attenzioni globali

La dichiarazione a favore della transizione verso un governo guidato da civili fatta venerdì da Abdel Fattah al Burhan, generale a capo delle forze armate sudanesi, è un tentativo di ottenere il sostegno internazionale. Le sue forze, note con l’acronimo Saf, combattono un gruppo paramilitare rivale – le Forze di supporto rapido, Rsf – in una sanguinosa lotta per il potere che ha fatto deragliare di nuovo le speranze di una transizione democratica del Paese, creando preoccupazione per la potenziale deflagrazione del conflitto su scale regionale.

Narrazioni e interessi

L’annuncio di Burhan, il primo dall’inizio degli scontri (una settimana fa) è arrivato durante la festività musulmana dell’Eid al-Fitr, che segna la fine del Ramadan e del suo mese di digiuno. Momento simbolico per parlare, tant’è che anche le Rsf guidate da Mohamed Hamdan Dagalo (noto come “Hemedti”) hanno rilasciato una dichiarazione rivendicando la paternità della tregua decisa per “permettere alle persone di celebrare la festività”. Sono messaggi che servono a intercettare le volontà della Comunità internazionale. Per esempio, il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha dichiarato: “Ribadisco il mio appello a entrambe le parti a sospendere i combattimenti per consentire ai civili di prendersi cura di se stessi e delle loro famiglie, per permettere un accesso umanitario completo e senza ostacoli e per consentire a tutti i civili, compreso il personale diplomatico, di raggiungere [un luogo] sicuro”.

Secondo l’ultimo bilancio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, le violenze hanno causato finora 413 morti e 3.551 feriti. Il bilancio comprende almeno nove bambini uccisi e 50 feriti, secondo il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia. “Invece di svegliarsi con la chiamata alla preghiera, la gente a Khartoum si è svegliata di nuovo con pesanti combattimenti”, ha scritto l’ambasciatore norvegese in Sudan, Endre Stiansen, in un messaggio di Eid al-Fitr su Twitter. “Può un inferno essere più orribile di questo?”. L’interessamento norvegese è parte di un aumento delle sensibilità verso le instabilità dell’area saheliana che i Paesi nordici stanno dimostrando in questo momento, consapevoli di quanto il dossier sia centrale anche per la stabilità europea. Non a caso, nei giorni scorsi il ministro degli Esteri finlandese, Pekka Havisto, ha chiesto un aggiornamento della situazione in Sudan al collega italiano Antonio Tajani.

Il contesto

“La situazione è semplicemente terribile”, ha dichiarato il primo ministro svedese, Ulf Kristersson: “L’evacuazione è rischiosa e complicata”. Il ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock, ha dichiarato che il suo Paese si sta preparando per un’evacuazione “quando avremo un cessate il fuoco che regga almeno per qualche tempo”. La Spagna ha pronti gli aerei dell’aeronautica militare, ma “non è possibile prevedere” quando potrà avvenire l’evacuazione, ha dichiarato il ministro degli Esteri, Jose Manuel Albares. Il Pentagono ha trasferito un piccolo numero di truppe in una base a Gibuti per assistere l’evacuazione dei cittadini statunitensi. Il capo degli Stati maggiori congiunti degli Stati Uniti, il generale Mark Milley, ha discusso la situazione con i funzionari della difesa di Germania, Italia e Canada in occasione di un incontro tenutosi venerdì in Germania.

I al Burhan e Dagalo sono in scontro per il controllo del potere, mentre cercano di ritrarsi come sostenitori della democrazia e punto di riferimento unico per chiunque voglia parlare con il Paese. Nel 2019, si sono rivoltati contro l’autocrate di lunga data Omar al-Bashir e lo hanno spinto fuori dal potere in mezzo a una rivolta popolare contro il suo governo. Da allora, però, non sono riusciti ad attuare gli accordi in base ai quali avrebbero ceduto il potere. Le loro forze hanno schiacciato le proteste pro-democrazia e nel 2021 hanno effettuato congiuntamente un colpo di Stato che ha rimosso un governo di transizione e li ha radicati come leader più potenti del Sudan. Entrambe le forze hanno una lunga storia di violazioni dei diritti umani. L’Rsf per esempio è nato dalle milizie Janjaweed, accusate di atrocità nel reprimere una ribellione nella regione occidentale del Darfur nei primi anni 2000.

Complicazioni regionali

Uno dei Paesi più attenti a ciò che sta succedendo è Israele. Il governo di Benjamin Netanyahu sta usando i rapporti che ha costruito con Burhan e Dagalo per evitare derive che possano aprire una fase di guerra civile vera e propria. È uno sforzo che chiaramente va oltre all’interessamento umanitario: il Sudan è uno dei Paesi arabi con cui Israele sta cercando una via di normalizzazione dei rapporti (nel caso specifico aprendo un processo di pace) nell’ambito degli Accordi di Abramo. Il governo di Gerusalemme teme che una deriva ulteriore del conflitto possa inficiare questo percorso – già congelato con la presa del potere dei militari lo scorso anno – e indebolire l’intero processo degli accordi.

Israele ha avviato un dialogo con Burhan, curato dal ministero degli Esteri, e con Hemedti, gestito dal Mossad, e secondo le informazioni diffuse dal governo Netanyahu si era arrivati molto vicini a far chiudere l’accordo di transizione. Poi sono iniziati gli scontri (perché?). Un alto funzionario israeliano ha detto al sempre informatissimo Barak Ravid di Axios che la settimana scorsa il governo israeliano era sicuro che un accordo sulla nomina di un governo civile sarebbe arrivato a giorni, se non a ore, e si è sentito frustrato quando l’accordo è saltato e sono iniziati i combattimenti nel fine settimana. Lo stesso ha confessato di aver ricevuto da Washington un invito a mediare.

L’attenzione interessata

Anche altri Paesi hanno interessi all’interno del quadro sudanese – e più in generale dell’Africa orientale, dove il Sudan, ottavo Paese africano per demografia, terzo per estensione, si affaccia verso il Corno, uno dei centri geostrategici globali e rotta dei commerci che dall’Oriente risalgono in Europa. Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto sono profondamente coinvolti nel Sudan. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti fanno parte del gruppo “Quad per il Sudan”, che comprende anche gli Stati Uniti e il Regno Unito. Riad ha annunciato l’inizio delle evacuazioni dei proprio cittadini dal Paese. Abu Dhabi è molto attivo a Karthum.

Nei giorni scorsi sono circolate informazioni a proposito di un iniziale coinvolgimento attivo negli sconti di forze armate della regione. In particolare, pare che la milizia che controlla Bengasi, in Cirenaica, guidata dal signore della guerra Khalifa Haftar, abbia inviato rinforzi militari a Hemedti. Contemporaneamente l’Egitto – di cui Hemedti ha preso in ostaggio 27 militari presenti nella base Merowe, al nord del Sudan – avrebbe inviato aiuti (operativi) alle Saf per contenere la rivolta delle Rsf. Secondo le informazioni di Al Arabiya, Haftar avrebbe rassicurato direttamente al Burhan di non essere coinvolto nel conflitto, ma sull’invio di qualche genere di aiuto c’è più di un sospetto – anche perché Haftar ha ricevuto dalle Rsf sostegno nelle sue ambizioni libiche, tramite un alleato comune: Abu Dhabi.

La divisione è interessante, perché pone l’Egitto sul lato apertamente opposto a quello di Haftar dopo che per anni il Cairo ha protetto el ambizioni del capo miliziano della Cirenaica. Altro punto comune: la Russia. Si ritiene che Hemedti, che ha collegamenti con Mosca, sia stato spinto all’azione dagli interessi russi (da tempo il Cremlino vorrebbe costruire una base navale a Port Sudan per avere un affaccio nel Mar Rosso). Pubblicamente Yevgeny Prigozhin, proprietario della società della guerra privata russa Wagner, si è offerto di aiutare a mediare tra i generali rivali in lotta per il potere, ma i funzionari americani dicono che ha offerto anche armi. “Le Nazioni Unite e molti altri vogliono il sangue dei sudanesi”, ha dichiarato Prigozhin. Senza un pizzico di ironia, Prigozhin, che sta conducendo una brutale campagna militare per conto della Russia in Ucraina, ha aggiunto: “Voglio la pace”.

Nei giorni scorsi anche la Cina ha mosso la sua retorica. L’Africa è oggetto dell’interesse delle iniziative globali di Xi Jinping, la crisi sudanese diventa automaticamente un dossier su cui Pechino può muovere le leve della narrazione strategica che mira a considerare la Repubblica popolare come un mediatore internazionale.

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