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Com’è andato il Summit per la democrazia di Biden? Risponde l’amb. Castellaneta

L’obiettivo più immediato è isolare la Cina. Per questo l’incontro, con le contraddizioni dei suoi partecipanti, potrebbe riassumersi come un tentativo di mettere in pratica una sorta di “friendshoring”. Il commento di Giovanni Castellaneta, già consigliere diplomatico a Palazzo Chigi e ambasciatore negli Stati Uniti

Le democrazie del mondo sono più forti dopo la seconda edizione del Summit per la democrazia che si è tenuto (in forma virtuale) nei giorni scorsi? Francamente, è difficile dare una risposta pienamente positiva: i problemi a livello internazionale sono talmente numerosi e complessi, come lo sono le contraddizioni tra gli Stati che hanno partecipato a questo evento, che non è abbastanza una video-conferenza tra leader per dire che i regimi democratici sono uniti e concordi tra loro.

Del resto, le contraddizioni sono in seno proprio al promotore della conferenza, ovvero gli Stati Uniti. È stato Joe Biden a volere fortemente questa conferenza, la cui prima edizione si è tenuta nel 2021: ma non si possono certo nascondere mosse, come l’abbandono precipitoso dell’Afghanistan, che non hanno certo consentito alla democrazia di imporsi e diffondersi ulteriormente nella regione, favorendo anche la stabilizzazione di un’area estremamente critica a livello geopolitico. Così come non è difficile togliere “punti” alla patente di “democraticità” di svariati tra i 120 Stati che hanno partecipato. Pensiamo per esempio all’India, quest’anno sotto i riflettori globali in quanto presidente di turno del G20: è un alleato chiave degli Stati Uniti in funzione anti-cinese nell’Indo-Pacifico, ma non si possono certo ignorare le politiche nazionaliste del governo Modi, che privilegia i cittadini induisti a discapito delle minoranze religiose, in particolare quella musulmana.

Certo, chi è senza peccato scagli la prima pietra: nel difficile contesto internazionale di oggi, sarebbe quasi utopistico pretendere che tutti i Paesi del mondo fossero democrazie perfettamente compiute e solide. Occorre dunque una buona dose di pragmatismo e realismo e considerare il Summit per la democrazia per quello che è: un’iniziativa dal valore prevalentemente simbolico, funzionale agli obiettivi degli Stati Uniti di creare, estendere e rafforzare un fronte sempre più ampio di alleati che condividono alcuni principi chiave su come debbano essere gestite le principali questioni internazionali. L’obiettivo più immediato – nemmeno troppo nascosto – è isolare la Cina (che dal canto suo non ha nulla di democratico): ecco perché questo summit potrebbe riassumersi come un tentativo di mettere in pratica una sorta di “friendshoring” geopolitico e non solamente in termini economici.

Anche Giorgia Meloni ha partecipato al summit con un intervento in cui ha ribadito il fermo posizionamento dell’Italia nel gruppo delle democrazie occidentali, condannando nuovamente la Russia per l’aggressione ingiustificata dell’Ucraina e segnalando ancora una volta l’interesse del governo ad approfondire la cooperazione con l’Africa attraverso un nuovo Piano Mattei. La presidente del Consiglio ha giustamente sottolineato come esista un legame fondamentale tra sviluppo economico e democrazia ed è anche per questo che attraverso un maggiore sostegno alla crescita delle regioni più povere il mondo intero può guadagnare in termini di stabilità. Tuttavia, non va nemmeno riposto eccessivo ottimismo verso iniziative di questo tipo, che possono fare poco in termini concreti per risolvere problemi sempre più gravi come la guerra in Ucraina o le crescenti tensioni con la Cina intorno a Taiwan. In questo caso non servono summit con centinaia di persone attorno a un tavolo (seppur virtuale); occorre piuttosto tornare a fare uso degli strumenti diplomatici nel modo più efficace possibile.

Determinante il programma di aiuto varato dell’Unione europea il 14 dicembre 2020, tradotto in programmi nazionali (PNRR) – ai nuovi obiettivi di indipendenza tecnologica ed energetica. Inoltre per contrastare la concorrenza cinese e rispondere efficacemente alla pioggia di sussidi americani, l’Unione europea annuncia un Green Deal Industrial Plan inteso a rinnovare il quadro normativo a sostegno a sostegno dello sviluppo sostenibile (Net-Zero Industry Act) e far leva in una prima fase su risorse esistenti (REPowerEU, InvestEu, Innovation Fund) cui dovrebbe seguire la costituzione di un fondo comune (European Sovereignty Fund) per sostenere gli investimenti nella transizione energetica e tecnologica a favore di imprese più promettenti sul piano tecnologico e più redditizie. Se, quindi, non è possibile né auspicabile contrastare la globalizzazione perché generata da tecnologie e non da scelte politiche, pandemia e guerra insegnano che non si può lasciar fare solo al mercato ma occorre un ruolo guida dello Stato per disegnare adeguate ed efficaci politiche industriali tra paesi affini, uniti da valori comuni.



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