“Terra e polvere” (2022, distribuito da Tucker) di Li Ruijin è un film umile, perfetto. Con il suo racconto semplice e, al contempo, sintatticamente innovativo, toglie il fiato allo spettatore. Un saggio filosofico che sarebbe piaciuto a Gustave Thibon. Un “poemetto in forma di prosa” alla Pier Paolo Pasolini che ci dice come la Cina non sia ancora vicina
Guiying, una donna contadina intorno ai quaranta, riservata, silenziosa, con lo sguardo sempre in terra, una «che nessuno sposerebbe per il problema alla vescica, non può avere figli», cammina curva e a fatica. Oltre al gran fastidio del corpo offeso, sopporta in silenzio un’immensa vergogna.
Youtie (nel villaggio conosciuto con il soprannome di “Ferro”), anche egli avanti con gli anni, lavora senza fermarsi mai, con il suo asinello, in campagna. I parenti li fanno incontrare per un matrimonio combinato. Entrambi ascoltano in silenzio. Chi tace acconsente.
Cambia la scena. Sono insieme in viaggio. Asinello carico di povere masserizie, verso un altro villaggio, al limite del deserto del Gobi. Lì, in quel non luogo sconosciuto alla loro vita priva di spostamenti, vi sono casupole abbandonate, scatole dagli occhi vuoti. Appartengono a migranti interni andati in città o sulla costa per una vita migliore. Persone a cui la terra non dava da vivere a sufficienza. La nuova coppia può abitarne una, per il momento. E lavorare la terra.
Ferro (We Renlin: perfetto nella parte del contadino saggio – sarebbe piaciuto al filosofo Gustave Thibon) e Guiying (Hai Qing: pensate al volto sofferto di una Anna Magnani nel film L’automobile), protagonisti di Terra e polvere (2022) del cinese Li Ruijun, iniziano la loro nuova vita con un percorso nella provincia di Gans, ai confini del deserto del Gobi, una via crucis laica (il paese è quello in cui è cresciuto il regista: set squisitamente neorealista). Nel villaggio sono rimasti pochi vecchi e disabili.
Lo Stato offre la possibilità, attraverso il capo-cooperativa che gestisce i fondi, di lavorare gli appezzamenti, aridi d’estate e umidi d’inverno, anticipando le sementi successivamente pagate dagli agricoltori con il raccolto. Sulla carta. Poi, come è immaginabile, il capo-cooperativa che gestisce questa economia da “comunismo capitalistico”, ne approfitta affamando i contadini.
Dentro questa cornice sociale appena accennata nella diegesi – anche per problemi di censura -, si nasconde l’altro tema, quello vero, di Terra e polvere. Ossia l’ascolto per l’altro, che, con il giusto tempo, si farà amore. E sarà un sentimento reciproco, germinato lentamente, come quel minuscolo seme di grano con attaccata la tenera fogliolina, che Ferro ha tre le dita. Un amore parco di parole e onusto di gesti, delicatezze, preoccupazioni per l’altro. Un prendersi cura che riassume tutta la filosofia del nostro Novecento occidentale in una esemplare forma e chiarezza quasi teologica.
Ferro e Guiying, nel loro monolocale, si rispettano in silenzio. L’uomo è gentile e posato nei movimenti. Quando si corica, stanco per la giornata nei campi, fa attenzione a non andare troppo vicino a sua moglie. Ella è timida, si vergogna per la disabilità. Pe molte settimane dormirà vestita, rincattucciata in un angolo del letto. Come a dire, “grazie per avermi accettato come sono. Non sono degna di essere tua moglie. Sono una donna a metà”.
Ferro cucina, la invita a mangiare. Guiying esita, poi pian piano inizia ad avere meno vergogna di sé. Intanto il padre del giovane presuntuoso direttore della cooperativa agricola è ricoverato in ospedale. Rischia di morire. Ha bisogno di trasfusioni di sangue. L’unico del villaggio che ha lo stesso raro gruppo sanguigno del malato è Ferro.
Viene caricato dal giovane sulla sua berlina e portato presso un posto mobile per il prelievo. Ferro, umilmente, non si oppone, per il bene della sua famiglia, del villaggio, ma anche perché la vita di un uomo anche se “padrone”, sembra dirci con i suoi occhi, è sacra. Ciò accadrà almeno tre volte.
L’aratro trainato dall’asinello è di legno; una tavola quadrettata con denti, sempre di legno, a mo’ di erpice, su cui si siede, gettata come “peso”, Guiying, per frantumare la terra, è usata per “fresare”. L’impasto per i mattoni essiccati al sole, è di fango e paglia, come duemila anni fa. Il bagno lo si fa vestiti nel fiume. Parte delle comparse del villaggio sono autentici contadini; l’illuminazione dei poveri interni, semibui, “a candela”, sono estremamente oggettivi. Li Ruijun opta per il taglio documentario, nel solco della famiglia del realismo spoglio: quello che va da Jean Renoir, passando per Vittorio de Sica e Bernardo Bertolucci, arriva almeno a Ermanno Olmi.
Ruijun mostra le tecniche agrarie da XIX secolo ancora in uso. Un inatteso contraltare della Cina ufficiale, quella propagandata come autentico colosso di tecnologie di ultima generazione, di città futuristiche alla Metropolis, dei laboratori alla Wuhan, della potenza militare di altissimo livello, dei voli interstellari (per tale ragione il film, dopo il successo mondiale, è stato ritirato in Cina da tutti i circuiti: della serie “i panni sporchi si lavano in casa”, Giulio Andreotti, 1948, nei riguardi del neorealismo cinematografico).
Terra e polvere (scoperto dal Far East Film Festival di Udine e nelle sale grazie alla Tucker distribuzione) ci fa conoscere un regista esperto nella direzione attoriale, alla Clint Eastwood, e nel racconto dal montaggio post-moderno costruito su inattese ellissi. La scena termina prima che lo spettatore si prefiguri una chiusa: a essa viene agganciata la scena successiva che è diversa, spesso opposta, per contesto e situazione psicologica alla precedente. Per esempio: dopo l’ennesimo prelievo di sangue di Ferro, che immaginiamo stanco, nel taglio successivo lo vediamo nei campi a lavorare. È passata la mattinata, un giorno, due? Non lo sappiamo. Scartata l’eventuale prevedibile stanchezza cui un altro regista non avrebbe rinunciato. (Ha fatto bene Ruijun a montarsi il film da sé).
Terra e polvere è un poemetto in forma di prosa alla Pier Paolo Pasolini. Con gli spazi vuoti e i silenzi di un Giuseppe Ungaretti. Con le inquadrature fisse alla Abbas Kiarostami, i colori caldi del Van Gogh di Maurice Pialat, ma anche con i carrelli che sarebbero piaciuti a F.W. Murnau.
Una storia esistenziale non poteva scegliere l’happy end. Nel poemetto di Li Ruijin vince la ruspa e il cemento; arriva improvvisa la disgrazia; trionfa la solitudine; con in sottofondo la cattiveria e il sarcasmo dei compaesani, gli ultimi della società, delusi dal finto sogno di quel “felice comunismo” che avrebbe dovuto rinnovare i loro cuori.
Ma, negli occhi dello spettatore, rimangono l’innocenza e la delicatezza di Guiying e Ferro, due puri di cuore, due piccoli puntini sul limitare del Gobi, in un immenso continente, che ancora chiude le porte al messaggio di Cristo.