Per la Svezia, la competitività, la capacità di innovazione e le competenze sono al centro della transizione energetica europea in un momento cruciale in cui ha assunto la presidenza dell’Ue. Adesso però l’Europa deve accelerare. L’intervento di Arvea Marieni, partner di Brainscapital e direttrice tecnica della Regenerative Society Foundation
Lo scorso 15 Marzo, l’Ambasciata di Svezia in Italia ha invitato stakeholders italiani e svedesi provenienti da istituzioni governative, università e imprese per un dialogo su come contribuiscono alla competitività sostenibile europea e sul ruolo che hanno in questo contesto.
La Svezia assume la presidenza dell’Unione europea in un momento cruciale: quando ci troviamo di fronte a crisi composite, a veri e propri sconvolgimenti epocali. Molti parlano di policrisi.
L’accelerazione del cambiamento climatico è una di queste crisi, sta causando perdite finanziarie significative e potrebbe propagarsi a cascata nel sistema finanziario.
Queste sfide, unite alle minacce alla sicurezza, stanno sconvolgendo i vecchi paradigmi e richiedono un’azione urgente. Solo abbracciando la sostenibilità guidata dall’innovazione, come sentiremo dai nostri relatori, possiamo rafforzare la resilienza dell’Europa, garantendo la nostra sicurezza energetica, l’indipendenza, una maggiore efficienza e competitività.
Le economie globali sono in competizione per trasformare i loro sistemi industriali. Le transizioni energetiche ed ecologiche, invece, richiedono una collaborazione senza precedenti. Per garantire una transizione ordinata e pacifica, dobbiamo concordare regole comuni.
Come cooperare e competere in modo costruttivo è un tema chiave della discussione odierna. Se le condizioni sono giuste, l’Europa può assumere un ruolo guida. Una delle domande che abbiamo posto agli oratori è: “Quali sono esattamente queste condizioni? Come possiamo fare ancora meglio?”.
Per la Svezia, la competitività, la capacità di innovazione e le competenze sono al centro di una solida strategia di “crescita verde” per l’Europa. Io sono d’accordo.
L’op-ed che segue vi spiega perché.
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La fine del petrolio è vicina, scrivevo anche su Formiche nel 2020. Se la pandemia aveva già colpito duramente Big Oil, la guerra in Ucraina ha accelerato la transizione.
Fino al 2020, la maggior parte degli analisti prevedeva che il picco globale della domanda di petrolio sarebbe stato raggiunto tra il 2030 e il 2035, seguito da una costante riduzione. Tra tutte, fanno testo le proiezioni dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (Iea).
Ciò si rifletteva sulle decisioni di investimento nel settore petrolifero e in quello delle rinnovabili. E la transizione energetica ha bisogno di soldi. Molti soldi. Secondo la Iea entro il 2050 il sistema energetico globale richiederà l’investimento di ulteriori 29 mila miliardi di dollari addizionali rispetto agli investimenti necessari a soddisfare la crescente domanda di energia a livello globale.
Ma fino al Covid la maggior parte di questi investimenti erano lasciati alle decisioni dei mercati, in un ambiente volatile e senza un coerente quadro d’indirizzo politico globale.
L’accordo sul clima di Parigi del 2015 non aveva infatti offerto grandi certezze. Una dichiarazione di principi più che un sistema di regole, Parigi aveva lasciato al buio mercati e l’industria, senza chiari segnali politici su quale sarà il prezzo del carbonio a lungo termine e, soprattutto, su quando ci sarà un meccanismo efficace per attuarlo.
Ma dal 2020, una nuova realtà tecnologica, politica ed economica sta accelerando l’esigenza di una revisione delle regole del sistema economico, della finanza e del commercio internazionale per adattarlo all’operatività dei sistemi industriali post-fossili.
Se i piani di recovery post pandemia avevano impresso un primo cambio di marcia, dopo la guerra in Ucraina, l’Inflaction Reduction Act americano e il RepowerEU, stanno modificando rapidamente il quadro di riferimento dei piani di transizione di Big Oil e dei Paesi esportatori. Siamo entrati in un mondo nuovo, dove migliaia di miliardi in investimenti nelle tecnologie del futuro, stanno iniettando nuova linfa vitale nel settore delle nuove energie, favorendo la costruzione accelerata dell’infrastruttura della transizione. In primis le reti elettriche. Tutti gli scenari di transizione mostrano un aumento decisivo e accelerato dei tassi di elettrificazione per tutti i settori: industria, costruzioni, trasporti.
L’industria del fossile si aspettava una transizione lenta. Oggi è costretta a cambiare marcia. La prima reazione è cercare di recuperare quanto possibile – e quanto più velocemente possibile – da investimenti che rischiano di diventare stranded assets molto prima del previsto. La recente decisione Opec di ridurre la produzione, malgrado i pericoli di aumento dell’inflazione e gli effetti recessivi sull’economia mondiale, è un segnale in questo senso. E un chiaro sintomo di nervosismo crescente.
Un ruolo importante ad accelerare il passaggio all’economia ecologica lo sta giocando la Cina. Se la tendenza alla riduzione della domanda è globale, il colpo di grazia potrebbe assestarlo Pechino, dove il governo sembra intenzionato a passare dal carbone alle rinnovabili senza passare per il gas e il petrolio. In nessun luogo infatti si corre come in Cina sulla via della uscita dai fossili. Per ragioni ambientali e climatiche, certo, ma anche per garantire autonomia strategica e sicurezza energetica a un grande paese industriale dipendente dall’importazione di energia. Prendiamo il settore delle auto, mobilità e trasporti.
Mentre l’Europa spreca tempo dietro a dibattiti lunari su come salvare tecnologie obsolete, lo scorso febbraio, le vendite cinesi di auto a benzina e diesel sono diminuite del 20% rispetto al 2022. Le elettriche plug-in sono ormai il 32% delle vendite. Per la fine dell’anno, potrebbero essere otto milioni i veicoli elettrici circolanti.
Ciò è avvenuto malgrado siano stati di molto ridotti i sussidi al consumo. E proprio la Cina sta sviluppando il mercato di massa dell’elettrico. Non a caso proprio in Cina Tesla ha avviato una recente guerra dei prezzi le cui prime vittime potrebbero essere le grandi case tedesche. Il modello elettrico meno costoso prodotto in Cina è una minicar venduta a 4.500 euro. L’elettrica più popolare invece è di Byd. Si può comprare a partire da 25.000 euro.
Se gli analisti prevedevano che entro il 2030 il 40 per cento delle vendite cinesi sarebbero state elettriche, in realtà questa soglia potrebbe essere superata già quest’anno. Il problema è ormai di capacità di produzione e non di domanda. Nel 2030 l’80% delle vendite potrebbero essere elettriche. Solo la Norvegia fa meglio: l’80% delle nuove vendite sono già elettriche da quest’anno.
Nel Paese di mezzo, vengono elettrificati anche i veicoli commerciali leggeri. I ritmi sono sostenuti, con una crescita dell’85% dal 2021 al 2022. Oltre il 60% degli autobus in servizio nelle città cinesi sono già a basse emissioni di carbonio. Tutti gli autobus delle metropoli della costa orientale saranno elettrificati entro il 2025. Shenzhen, un laboratorio d’innovazione tecnologica e sociale, è stata la prima città al mondo a elettrificare tutta la flotta di autobus. I 16.000 mezzi in circolazione hanno abbattuto già oggi, e con il mix energetico attuale, il 48% delle emissioni e ridotto in modo significativo le altre sostanze inquinanti. I camion e mezzi pesanti sono il prossimo target del passaggio all’elettrico. L’impressionante rete di treni ad alta velocità e trazione elettrica che attraversano il paese significa che il trasporto aereo ha un ruolo ben più limitato che in altre regioni. Pensiamo solo agli Stati Uniti.
Quello che non si dice quando si fa campagna contro l’elettrico, è quanto fa male a Big Oil.
Bloomberg New Energy Finance stima che i veicoli elettrici in tutto il mondo abbiano già sostituito 1,5 milioni di barili al giorno (b/g) di petrolio, pari all’1,5% della domanda globale. Questa tendenza sta per accelerare in modo esponenziale.
Circa il 70% di tutto il petrolio utilizzato nell’Ue è destinato ai trasporti – soprattutto automobili, camion e aerei – mentre il resto è quasi interamente assorbito dal riscaldamento.
I trasporti sono la seconda spesa delle famiglie europee, dopo l’abitazione, e contribuiscono enormemente alla crisi climatica, essendo responsabili di circa il 30% delle emissioni di gas serra nell’Ue, senza parlare degli inquinanti e dei danni alla salute umana.
Cina ed Europa, scrivevo sempre su Formiche con un alto funzionario europeo, hanno questo in comune: sono entrambi importatori netti. Per questo, sia pure con molte riserve aggiungeva, “se in materia di energia e di indipendenza energetica, gli interessi geopolitici di Pechino e di Bruxelles sono più vicini”, tuttavia, “le differenze tra Europa e Cina restano però molto profonde e non possono essere ignorate. In senso politico, gli Usa restano l’alleato naturale dell’Europa.”
L’America è in gran parte autosufficiente per quanto riguarda l’energia: la Cina è di gran lunga il più grande importatore al mondo, con 10,8 milioni di barili al giorno, ma è anche il maggior importatore mondiale di Lng, gas naturale liquefatto, che, come il petrolio, giunge anch’esso via nave. Si tratta di una debolezza geostrategica evidente, mentre le tensioni con gli Stati Uniti aumentano.
Quindi, come per l’Unione europea, la scommessa sulla trasformazione rinnovabile e circolare della nuova economia industriale post-fossile si basa su un calcolo di convenienza diretta e sul bisogno di un’ineludibile minaccia di sicurezza strategica.
Solo che la Cina va (ancora, si spera) molto più veloce della Ue. L’espansione di capacità rinnovabile è impressionante da tutti i punti di vista, industriale, economico, finanziario, di ingegnerizzazione e gestione di progetti complessi; nonché di ingegneria sociale, per la transizione ad un nuovo sistema di relazioni, scambi, produzione e consumo.
Mentre Roma pensa di fare dell’Italia l’hub mediterraneo del gas, grandi distese di deserto nella Mongolia interna, nel Gansu e nello Xinjiang vengono ricoperte di pannelli solari e turbine eoliche, mentre capacità supplementare di carbone viene costruita per sostituire centrali più sporche e meno efficienti, ma soprattutto come baseload, per stabilizzare la rete elettrica che ancora necessita di interventi e per evitare i blackout invernali. L’offshore è anch’esso in crescita esponenziale.
La capacità totale di eolico offshore installata a livello mondiale è arrivata a 57,6GW nel 2022, da 48,1GW dell’anno precedente. Nel corso dell’anno, la Cina ha ampliato la sua posizione di primo mercato mondiale dell’eolico offshore con 25,6 GW di capacità installata, più del Regno Unito con 13,6 GW, della Germania con 8 GW e dei Paesi Bassi con 3 GW.
Dei 33 nuovi campi eolici offshore diventati operativi nel 2022 a livello globale, 25 erano in Cina, 5 in Vietnam, 1 nel Regno Unito, 1 in Corea del Sud e 1 in Italia.
Il piano di transizione cinese prevedeva l’installazione 1.200GW di rinnovabili entro il 2030. Le cifre raccontano che in realtà quest’obiettivo sarà raggiunto con cinque anni di anticipo, dato che l’installazione di rinnovabile cresce al ritmo di 180GW l’anno.
Analisti di Goldman Sachs si spingono oltre. Per loro la Cina supererà l’obiettivo di tre volte, raggiungendo l’incredibile cifra di 3.300 GW entro la fine di questo decennio, il tutto sostenuto da una vasta espansione della capacità di stoccaggio. Secondo le loro stime, il Paese potrebbe dimezzare le importazioni totali di energia entro i primi anni del 2040.