Il consulente strategico e fondatore di T-Commodity: “L’Europa non deve pensare che il processo di derisking si sostanzi solo nella riduzione dei rapporti commerciali con la Cina. Dobbiamo infatti dare rassicurazioni al nostro alleato strategico: gli Stati Uniti”
Un cambio di passo nei rapporti col Dragone. Non c’è dubbio che le parole della presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen rappresentino una svolta nei rapporti fra Unione europea e Cina. Malgrado “sganciarsi dalla Cina non è negli interessi dell’Unione europea”, dice la presidente, il messaggio che emerge dalle sue parole è molto chiaro: dobbiamo essere meno esposti al peso dell’influenza cinese. La direzione è il derisking. Ma “l’Europa non deve pensare che il processo di derisking si sostanzi solo nella riduzione dei rapporti commerciali con la Cina. Dobbiamo infatti dare rassicurazioni al nostro alleato strategico: gli Stati Uniti”. Ne è convinto Gianclaudio Torlizzi, consulente strategico e fondatore di T-Commodity.
Seppur blando, c’è stato un oggettivo cambio di orientamento dell’Unione europea sui rapporti con la Cina. Qual è l’approccio che va perseguito?
Un cambio di posizione, benché leggero c’è stato. Probabilmente il ragionamento di von der Leyen è anche il frutto dell’ascolto di diverse audizioni al Parlamento Europeo alle quali anche io ho preso parte, paventando i rischi che una transizione energetica troppo legata alla Cina potrebbe determinare sull’Unione Europea. Il punto da cui partite è semplice: l’alleato strategico sono gli Stati Uniti, la Cina può essere un partner commerciale per esempio sulle commodities di cui è uno dei tanti fornitori. Altro discorso invece è quello dei settori sensibili in cui le scelte sono senz’altro più delicate: l’orientamento deve essere verso Washington.
Comunque, va evitato l’azzeramento dei rapporti con la Cina.
Sì, l’azzeramento totale dei rapporti commerciali non porterebbe benefici a nessuno. La Cina, comunque, sta perseguendo un suo processo di decoupling. Un sostengo alla propria impresa nel mercato interno. L’Ue quindi non può adottare l’approccio perdente di un derisking solo orientato sulla diminuzione dei rapporti commerciali, anche perché in questo modo non si avrebbero benefici nel processo di separazione che sta avviando Pechino.
L’Italia come si inserisce in questo quadro, in chiave economica?
Il nostro Paese, differentemente dalla Germania, ha un grande punto di forza che sono le piccole e medie imprese cha hanno una minore dipendenza dalle filiere cinesi. Se dunque è comprensibile che i tedeschi siano più resistenti al processo di allontanamento dalla Cina – l’economia tedesca si è basata per decenni sulle lunghe catene di fornitura cinesi –, l’Italia si deve orientare sugli Stati Uniti. Anche perché pensare di penetrare facilmente il mercato asiatico, al netto dei marchi di lusso, è tutt’altro che facile.
Entro fine anno il governo deciderà sul memorandum con la Cina, siglato dal governo Conte I nel 2019. Che esito prevede?
I ragionamenti in questo senso sono in corso. La mia personale posizione, lo ribadisco, è che l’Italia debba rinsaldare il suo asse – peraltro confermato dal governo – con gli Stati Uniti e diventare il “ponte” tra Stati Uniti ed Europa. Assumere, insomma, il ruolo che aveva il Regno Unito quando era ancora nell’Unione europea. Di più: sarebbe auspicabile che l’Italia impostasse una “via della seta” con i Paesi dell’Anglosfera, i cui principali attori sono importanti fornitori di materie prime.
In questo quadro sarebbe auspicabile un’Europa forte e coesa. Ma il caso dei carburanti sintetici dimostra che spesso prevale ancora una visione unilaterale, a detrimento degli interessi comuni.
L’approccio della Germania sul dossier “motori” indebolisce fortemente la coesione europea. Ma l’Italia non può fare altro che prenderne atto. Anche perché ci sono infelici precedenti tedeschi che si inseriscono in questo quadro: dagli accordi per gli approvvigionamenti di materie prime (rame, su tutti) alla gestione della pandemia.
A proposito di Europa, il governo continua il pressing sulla terza rata da 19 miliardi del Pnrr. Al di là della revisione della timeline sui cantieri, su cosa deve puntare la strategia italiana in Europa?
Lo sforzo, a mio giudizio, deve essere orientato a convincere l’Unione europea a destinare una parte dei fondi alla detassazione delle imprese, sennò il rischio è che queste cospicue somme non defluiscano completamente nell’economia reale. È giusto che l’esecutivo chieda lo slittamento della timeline e sarebbe anche comprensibile che il piano fosse modificato in alcune parti. Il Pnrr è un’eredità del governo precedente. Modificalo rientra nelle prerogative dell’attuale esecutivo. E l’Unione europea lo deve comprendere, uscendo dall’approccio dirigista.