Un gruppo di giornaliste ucraine ha visitato la redazione di Formiche in occasione della Conferenza bilaterale sulla ricostruzione. Ci hanno raccontato la vita e il lavoro sotto le bombe, l’importanza di continuare a pubblicare in qualunque condizione e la determinazione di un Paese che vuole già ripartire
“Il mondo ha saputo subito che Kharkiv era stata liberata dall’occupazione russa. Anche i residenti di Kharkiv lo hanno scoperto leggendo le notizie, ma dopo sei mesi di isolamento”. Tra le difficoltà di vivere sotto le bombe russe c’è anche l’incertezza di quello che accade intorno, la mancanza di informazioni o la loro manipolazione; Mosca usa canali come Telegram anche per operazioni di terrorismo mediatico, diffondendo falsi allarmi aerei o esortando a spostarsi in certi territori. E per contrastare l’invasore sul campo serve la penna oltre ai proiettili.
Queste testimonianze arrivano da un gruppo di giornaliste ucraine dalle regioni al confine con la Russia, ospitate dalla redazione di Formiche.net in occasione dell’advocacy press tour organizzato dalla ong internazionale Irex, il giorno della Conferenza bilaterale sulla Ricostruzione dell’Ucraina di mercoledì 26 aprile. Tutte donne, perché è più difficile per gli uomini uscire dal Paese dove sono riservisti perenni. Tutte impegnate a raccontare sul campo la realtà dell’invasione russa, documentare l’esistenza e la resistenza degli ucraini, raccogliere le prove dei crimini di guerra commessi dai soldati del Cremlino.
Parlano senza glissare sui dettagli ma evitando di accentuarli, quasi temessero qualsiasi forma di autocommiserazione. Le premesse sono chiare: parlare di conflitto congelato, guerra nucleare, escalation, o compromessi territoriali è solo propaganda russa e “completamente inaccettabile per noi”. La fine del conflitto avverrà quando i soldati se ne andranno, ci spiegano, perché “sappiamo che quando la Russia ritornerà” – non hanno usato il condizionale – “lo farà ancora più aggressivamente di prima. Guardate la Crimea, poi guardate Mariupol”.
Oltre agli interventi militari, la Russia agisce nella cultura ucraina e nello spazio politico da oltre trent’anni, ci spiega Natalia Pakhaichuk, sezione ricerca e sviluppo della rete nazionale di media iperlocali Rayon.in.ua (Lutsk). La loro soluzione è stata fare rete tra piccole realtà editoriali per rafforzare le loro operazioni e contrastare la disinformazione martellante. Il Cremlino ha investito molto nella sua presenza, soprattutto sui social network, racconta, e “con l’inizio della guerra – che per loro è, appunto, il 2014 con l’invasione della Crimea – “abbiamo capito che dovevamo proteggere le piccole comunità o rinunciare del tutto”. L’utenza è cresciuta nell’ordine dei milioni a partire dal 24 febbraio, anche grazie all’apporto dell’Ue con la modernizzazione del sito, che ha amplificato di cinque volte la sua portata.
“Non saprei se ci governa un sentimento in particolare” dice Kateryna Klochko di 061.ua, una fotografa che da un giorno all’altro è diventata fotoreporter di guerra, quando i russi hanno invaso Zaporizhzhia; “di certo non è la paura”. Questo nonostante il fatto che le bombe russe colpiscano “indiscriminatamente” città, case di famiglie, edifici storici. Una distruzione tale che talvolta rende impensabile la ricostruzione, e che lei e i suoi colleghi documentano senza nessun tipo di assicurazione sulla propria vita. “Qualsiasi cosa può accadere ai giornalisti”, ci spiega, prima di mostrarci le foto di come le piccole comunità di confine vivano – senza elettricità, riscaldamento e benzina – da oltre un anno.
“Abbiamo trovato il modo di affrontare i problemi. Alcune delle comunità più piccole sono state depredate, quindi ci stiamo unendo a loro e stiamo preparando pubblicazioni comuni. Ma se ci fermiamo a pensare alle condizioni di vita diventiamo pazzi”, racconta Natalia Kalinichenko di Bilopilschyna, quotidiano stampato della regione di Sumy. Il loro lavoro si è riconfigurato attorno agli ostacoli, sia materiali che psicologici. Come i figli che non tornano dal fronte. “È anche per questo che rimaniamo sul territorio: i nostri ragazzi stanno combattendo la guerra e noi dobbiamo rimanere lì a raccontare le loro storie”. E i giornali nelle regioni di confine “sono diventati un segno di fiducia, vita e speranza per il futuro” anche solo perché, semplicemente, vengono prodotti e distribuiti. Sono il tessuto connettivo delle comunità, che a loro volta, spiega Natalia, rappresentano “la prima linea di difesa dopo l’esercito”.
Il concetto di adattarsi e continuare a guardare avanti è un filo rosso che corre lungo l’intera conversazione. “Nessuno passerebbe al semaforo rosso. È lo stesso per noi quando sentiamo le bombe arrivare: ci fermiamo sul momento ma continuiamo a vivere la nostra vita”. Oggi gli ucraini sono in grado di distinguere tra i diversi tipi di attacchi aerei dal suono che fanno, riconoscono la direzione da cui arrivano, conoscono il meccanismo di sicurezza. E quando l’attacco è finito si torna a una vita straordinariamente più amplificata rispetto a chi non conosce la guerra.
Da una parte, le passioni sono accentuate. Ma dall’altra lo è anche la determinazione. “La nostra fatica è più forte, l’odio è più forte, tutte le cadute sono più forti. Non voglio più parlare con persone che non sono interessanti. Non ci possono più essere giorni senza risultati. Vediamo molta speranza in Ucraina… speranza e obiettivi e azione. Tutto quello che facciamo è un investimento verso la vittoria. Oggi chiunque fa la sua parte e dona quello che ha”, racconta Alla Skoryk, editore capo della sezione Chernihiv dell’Emittente nazionale pubblica dell‘Ucraina. “Ti senti come se ti fosse stata data una seconda possibilità di vita. Le persone mettono in atto i progetti che rimandavano o tenevano nel cassetto… Se non ora, quando?”
Questa, la determinazione di un popolo che non vuole essere cancellato dalla guerra d’aggressione del Cremlino, è alle fondamenta dell’azione di ricostruzione. E le storie raccolte, oltre a creare un grande archivio dei crimini di guerra (perché gli invasori siano puniti alla fine del conflitto) e tessere la trama delle comunità, servono anche per presentare all’estero un Paese che vuole attrarre risorse per ricostruirsi. L’esempio che ci hanno portato è la città di Chernihiv, cinta d’assedio dal 24 febbraio 2022 e liberata l’aprile successivo. Da allora è in fase di ricostruzione, raccontano. Quasi tutti gli ospedali sono stati distrutti o danneggiati, assieme al 60% di scuole, asili, biblioteche e musei, che poi saranno gli ultimi a essere ricostruiti. L’urgenza sono le infrastrutture di trasporto ed energetiche, per garantire riscaldamento ed elettricità alle case, che rappresentano l’80% dei 2.500 edifici già ricostruiti sugli 11.000 distrutti.