Kissinger si vantava di essere stato il primo segretario di Stato a concedere il visto per gli Stati Uniti al dirigente del Pci Napolitano, il quale gli replicava: sì dopo che me lo avevi negato. Da allora, anni Settanta, molta acqua atlantica era passata sotto i ponti. Ma il rapporto si creò all’inizio. Il racconto di Stefano Stefanini, già rappresentante dell’Italia alla Nato e consigliere diplomatico del presidente della Repubblica
“Lei è la guardia del corpo?”. “No, l’interprete”. Era una bellissima mattina di fine settembre 1984. Eravamo nell’appartamento di Henry Kissinger in York Avenue, sotto le finestre l’East River scorreva placido. L’ex segretario di Stato americano aveva invitato Giulio Andreotti, ministro degli Esteri di recente nomina del governo Craxi, in visita a New York per l’apertura dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a un breakfast ristretto. La mia presenza, giovane diplomatico (allora!) alle prime armi, era dovuta a una coincidenza.
Fui reclutato perché l’invito era giunto all’ultimo momento. Andreotti rinviò la partenza ma era rimasto senza interprete. Ma teneva all’incontro. Per due motivi. Il secondo è che aveva una spiegazione da dare. Un paio di settimane prima, rispondendo a una domanda sui rapporti fra la Repubblica Federale Tedesca, occidentale e Nato, e la Repubblica Democratica Tedesca, comunista e Patto di Varsavia, aveva detto che le Germanie erano due e che due sarebbero dovute rimanere, aggiungendo di vedere un rischio di “pangermanesimo” che andava fermato. Suscitò un vespaio di proteste, a cominciare da quella formale del ministro degli esteri della Germania ovest, Hans-Dietrich Gensher. Occorreva calmare le acque alleate. Quale canale migliore di Henry Kissinger e dei “pochi intimi” che gli avrebbe fatto trovare al tavolo? Il primo è che, semplicemente, se si vuol far politica estera non ci si lascia sfuggire l’occasione.
Non ricordo i dettagli della lunga conversazione. Ero troppo concentrato sul mio compito – tradurre. Con due ambasciatori italiani al tavolo, Umberto La Rocca e Rinaldo Petrignani, mi sentivo sotto esame. Andreotti se la cavò abilmente: il rischio della riunificazione – siamo ancora in piena guerra fredda – è che in cambio l’Urss chieda la neutralità della Nato e non possiamo permettercelo. Questa versione atlantista suonò abbastanza convincente per guadagnarsi l’apertura di credito oltre Oceano di cui egli aveva bisogno. Buon viatico per il lungo periodo che lo attendeva alla guida della Farnesina. Né Kissinger ebbe da pentirsene. Solo cinque anni dopo, quando cadde il muro di Berlino, Andreotti appoggiò subito la riunificazione, a differenza di altri leader europei, inizialmente esitanti.
Kissinger non ebbe dubbi. Tenne una conferenza a Roma nel novembre del 1989. Ne conservo gelosamente il dattiloscritto (niente salvataggio in memoria a quei tempi). Il Muro era appena caduto. Nessuno aveva idea di cosa sarebbe successo. Kissinger fu netto: Germania riunita e nella Nato. Oggi lo ringraziamo. Peccato che non si sia realizzata una seconda parte della sua prescrizione, una collaborazione rafforzata Parigi-Londra-Roma per equilibrare il peso della nuova Germania in Europa. La visione era giusta. Rifletteva quella che è sempre stata la convinzione più profonda di Henry Kissinger: le relazioni internazionali non sono improntate alla perfezione ma alla ricerca del bilanciamento di potere e interessi. I periodi di pace, assoluta o relativa, di cui ha goduto il mondo corrispondono a stagioni in cui le grandi potenze hanno trovato questo equilibrio.
Non sempre è così. Stiamo vivendo una fase storica in cui questo equilibrio si è evidentemente rotto. Le ultime raccomandazioni di Kissinger puntano a come ricrearlo con un approccio transattivo nei rapporti internazionali, soprattutto fra Stati Uniti e Cina. Può sorprendere che prenda come modello il pragmatismo della politica estera dell’India: alleanze ad hoc su questioni concrete che finiscono col bilanciarsi fra loro. Ma proprio lì sta la realpolitik di Kissinger, tanto ammirata dai professionisti quanto criticata dai ben intenzionati dilettanti. Non è una rinuncia agli ideali o ai valori. È il riconoscimento delle regole del gioco della politica estera, di qualsiasi politica estera. Grande appassionato di calcio, Kissinger sa che le partite non si vincono segnando in fuori gioco. Il suo realismo significa semplicemente accettare i vincoli, mutevoli, della scena internazionale, e adattarvi l’azione non gli obiettivi.
Di conseguenza, la grande dote del grande statista sta proprio riconoscere i limiti oggettivi della propria azione e avvalersene in positivo. Uno degli ultimi libri di Henry Kissinger è proprio su sei modelli di leadership, Konrad Adenauer, Charles De Gaulle, Anwar Sadat, Margaret Thatcher, Lee Kuan Yew, Richard Nixon, diversissimi ma accomunati dal raggiungimento di risultati che travalicavano le circostanze in cui si trovavano ad operare.
Nel 2015, il Premio Henry A. Kissinger fu conferito a Giorgio Napolitano e Hans-Dietrich Genscher. Ebbi di nuovo la fortuna di essere presente quando i “tre grandi vecchi” si scambiarono cordialità non di maniera all’Accademia americana di Berlino. Fra Kissinger e Napolitano amicizia e stima reciproca si erano sviluppate inopinatamente. Kissinger si vantava di essere stato il primo segretario di Stato a concedere il visto per gli Stati Uniti al dirigente del Pci Napolitano, il quale gli replicava: sì dopo che me lo avevi negato. Da allora, anni Settanta, molta acqua atlantica era passata sotto i ponti. Ma il rapporto si creò all’inizio.
Quando si incontrarono Kissinger riconobbe lo statista, e Napolitano il genio di affari internazionali. Pochi possono vantare di esserlo stati e rimasti per un secolo intero. Durante il quale Kissinger, accademico, diplomatico, autore, ha lasciato un’impronta indelebile sulla politica estera americana, sulle relazioni internazionali e sul modo di pensare e fare la diplomazia. Ne abbiamo ancora bisogno oggi.