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L’avv. Alessandra Demichelis, i social network e la Costituzione

Sicuramente un avvocato non può usare i social network per attività che rivelino fatti collegati all’attività della professione. Ma quale è il limite in cui questo self restraint tocca anche quelle che sono esternazioni sulla propria vita privata? Il commento di Alfonso Celotto, ordinario di Diritto costituzionale all’Università Roma Tre

Internet ci dà più libertà, ci consente di collegarci rapidamente con tutti, di dare spazio a pensieri, opinioni, immagini. In generale l’utilizzo dei social network è coperto dalla libertà di cui all’art. 21 Cost.

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Un diritto di manifestare il proprio pensiero scritto dai costituenti in maniera “presbite”, avrebbe detto Calamandrei, proprio per l’ampiezza con cui ricomprende “ogni altro mezzo” di diffusione e quindi sicuramente anche i social network.

Oggi Instagram ha in Italia quasi 30 milioni di profili, cioè significa che la metà di noi, più o meno, mette in rete pensieri, immagini, filmati. Ma siamo del tutto liberi di farlo o almeno in alcuni casi il lavoro che facciamo ci limita? Tutti in questi giorni abbiamo letto il caso dell’avv. Alessandra Demichelis che è stata sospesa per 15 mesi dall’albo degli avvocati piemontese per aver violato il limite tracciato dagli articoli 2 e 9 del codice deontologico forense, ovvero quello che riguardano i “doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza”.

Sono andato a guardare il profilo della avvocata, dove si alternano foto professionali a foto di vita, al mare, in viaggio: a mio avviso nulla di meno decoroso di quanto si possa vedere in un ristorante alla moda o in una spiaggia estiva. Eppure, è arrivata questa severa sanzione disciplinare. Ed è costituzionalmente corretta? Bilancia in maniera adeguata la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), la libertà personale (art. 13 Cost.) e gli obblighi connessi alla attività professionale (art. 4, 24, 54 e 97 Cost.)?
Il tema, molto complesso.

Una questione simile si è già posta per i magistrati. Così il Consiglio di Giustizia Amministrativa (cioè il Csm di Tar e Consiglio di Stato) ha emanato una circolare: “I magistrati amministrativi adottano elevati parametri di continenza espressiva, utilizzando un linguaggio adeguato e prudente rispetto a tutte le interazioni in essere sulle piattaforme di social media” (Cpga delibera 25 marzo 2021). Una indicazione chiara, ma al tempo stesso prudente. Un invito alla adeguatezza innanzitutto.

Lo stesso ha fatto anche la Corte di cassazione che in una circolare di ottobre 2021 ha ribadito che l’uso dei social da parte delle toghe è comunque regolato dalle norme deontologiche, sconsigliando l’esibizione virtuale, richiedendo attenzione alle amicizie o ai gruppi e raccomandando il self-restraint, perché i sociale «ove non amministrati con prudenza e discrezione, possono vulnerare il riserbo che deve contraddistinguere l’azione dei magistrati e potrebbero offuscare la credibilità e il prestigio della funzione giudiziaria».
Si tratta di limiti compatibili con la libertà personale?

Per i magistrati c’è una radice costituzionale al limite perché l’art. 98 comma 3 prevede che “Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”. Già i Costituenti hanno chiaramente indicato che quando si rivestono determinate cariche o ruoli non è opportuno una esposizione eccessiva, al punto da prevedere che si potesse limitare l’iscrizione a partiti politici. Proprio in nome della terzietà e dell’indipendenza di un magistrato (o di un funzionario di polizia o di un ambasciatore).

In fondo è inopportuno, prima ancora che illegittimo sapere che un magistrato sia iscritto alla Democrazia cristiana o al Partito comunista (per fare esempi storici). E infatti anche le Forze armate hanno analoghe circolari sulle limitazioni all’uso dei social network
Ma questi limiti possono valere anche per tutti gli altri lavoratori e professionisti, al di là del buon senso e dell’auto-controllo che devono ispirare qualsiasi azione delle nostre vite? Il codice deontologico forense prevede che “L’avvocato, anche al di fuori dell’attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense” (art. 9 comma 2).

Sicuramente un avvocato non può usare i social network per attività che rivelino fatti collegati all’attività della professione. Ma quale è il limite in cui questo self restraint tocca anche quelle che sono esternazioni sulla propria vita privata? Quando un post può compromettere la propria reputazione e l’immagine della professione forense? Da avvocato mi viene in mente il classico dilemma: “mia moglie mi può far causa per vietarmi di portare i calzini spaiati, uno verde e uno rosso?” Si tratta di un conflitto che tocca la radice dei nostri diritti fondamentali e che con internet e i social network non può che amplificarsi.

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