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Tanti auguri, caro Henry. La testimonianza dell’amb. Sessa

“Fu pragmatico e di grande visione. Risolutore in Vietnam, oggi avrebbe una risposta anche sull’Ucraina “. Il ricordo del presidente Sioi

Henry Kissinger apparteneva a quella generazione di giganti in grado di gestire le relazioni internazionali con una visione di lungo periodo. Così a Formiche.net l’ambasciatore Riccardo Sessa, presidente della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale ed editorialista del Messaggero, già ambasciatore d’Italia a Belgrado, Teheran, Pechino e alla Nato.

Quale aspetto crede vada sottolineato dell’ex segretario di stato rispetto alla sua persona, alla sua mission e alla sua postura?

È stato un grande protagonista della vita internazionale di questi decenni, un grande pragmatico i cui comportamenti, in più di un’occasione, hanno suscitato non poche polemiche e critiche, a cominciare da casa sua. Kissinger, inoltre, è stato sempre al centro di molteplici contatti e chiunque passava nelle vicinanze del suo studio finiva per rivolgersi a lui, per chiedere consigli. Ancora oggi nel suo ufficio di Manhattan passano tutti coloro che cercano consigli sul piano internazionale perché lui è sicuramente uno dei pochi che ha dimostrato di sapersi muovere su quel piano.

Certamente ha conseguito dei risultati di un grande interesse: mai come ora è di attualità il rapporto che seppe instaurare con la Cina, che portò al riconoscimento da parte degli Stati Uniti, senza dimenticare il ruolo che doveva svolgere l’Unione sovietica e il suo intervento nella guerra in Vietnam. In quegli anni credo che occorresse una persona che, quasi chiudendosi gli occhi e tappandosi il naso, riuscisse a favorire la fine di una guerra che era diventata insopportabile per gli americani, ma nella quale gli americani non dovevano perdere la faccia dinanzi ai loro alleati.

Il Vietnam, la negoziazione degli accordi di pace di Parigi, il bombardamento della Cambogia: mosse risolutive?

Egli doveva trovare un modo per porre fine a quella tremenda guerra e doveva dare un forte segnale interno, perché certamente in Europa eravamo consapevoli di quella guerra, ma non avevamo l’angoscia delle famiglie americane, nelle quali ogni figlio veniva arruolato e spedito in Vietnam. Quindi bisognava assolutamente trovare il modo per arrivare a un’intesa. E un’intesa, quando c’è una guerra, è sempre dolorosa. Oggi in Ucraina stiamo vivendo una situazione che non è certo la guerra del Vietnam, ma che prima o poi porterà lì a delle decisioni dolorose.

Invece nel rapporto con l’Italia?

Non credo che lui avesse tra le sue priorità quella di curare il rapporto con l’Italia, bensì di curare quei rapporti con tutti i Paesi con cui avevano interessi. Kissinger verso l’Italia ha continuato nelle linee tradizionali della diplomazia americana della Casa Bianca nei confronti di un Paese che è sempre stato uno dei principali alleati. Ovviamente Kissinger poi ha avuto modo di stabilire rapporti personali con uno piuttosto che con un esponente dei governi italiani e questo lo ha facilitato in una maggiore familiarità con la realtà politica italiana, nei cui confronti egli non ha mancato di esprimere il proprio pensiero. Una realtà che ha guardato sempre attraverso i suoi occhiali.

L’approccio sistemico di Kissinger basato sulla cosiddetta Grand Strategy, mettendo a sistema i diversi elementi dei meccanismi decisionali nazionali di un Paese, come può essere perseguito anche oggi?

Se vogliamo parlare di iniziative di politica estera a 360 gradi occorre disporre di meccanismi decisionali efficaci, cioè in grado una volta presa una decisione di dispiegare un dispositivo che come minimo sindacale debba comprendere strumenti diplomatici e militari: e oggi direi anche economici. Certamente ai giorni nostri la forza non è soltanto quella militare, ma si manifesta anche tramite un soft power in molteplici settori estremamente rilevanti. In un’azione diplomatica classica è sempre stato così. In Italia purtroppo invece spesso è mancata la cultura del ‘fare sistema’: ricordo dei periodi in cui Esteri e Difesa lavoravano a strettissimo gomito. Mi viene in mente il più brillante esperimento compiuto nella primavera del 1987 con l’operazione “Alba” in Albania, a conduzione italiana, ovvero guidato da un direttore politico italiano e da un comitato militare italiano. Fu un esempio da manuale di una perfetta operazione militare a guida italiana.

Oggi invece?

Oggi mi pare di capire che tutto questo venga lasciato allo spirito di iniziativa degli uomini, mentre in altri Paesi è prassi regolare. Dal momento che nel nostro patrimonio genetico non c’è il concetto di fare sistema, dobbiamo aspettare ciclicamente che appaiano uomini che, invece, quell’approccio hanno. Kissinger appartiene tuttora a un mondo dove le grandi agenzie, nel complesso, fanno sistema, al netto di qualche episodio dove ogni tanto ci sono dei giocatori solitari. Ma se pensiamo agli Usa in ultima analisi da loro c’è un Consiglio di Sicurezza nazionale, che da anni molti di noi invocano anche in Italia, dove la Casa Bianca ha in mano tutti gli strumenti per agire. È una strada che, in un mondo così complesso come quello di oggi, potrebbe rivelarsi utile anche in altre parti.

Condivide il rilievo che Kissinger ha avanzato all’Unione europea? Ha detto che lo rattrista che l’attuale governance non sia capace di avere il cosiddetto senso dell’orientamento, che magari i precedenti statisti come De Gaulle e Adenauer avevano.

Ogni volta che uno straniero emette una sentenza è evidente che vi siano le più diverse reazioni. È anche vero che ciascuno è libero di giudicare quello che vede intorno. Certo, oggi la governance europea sta attraversando un momento non facile, però c’è da tener presente un concetto sul quale io da tempo vado insistendo, semplice e al contempo preoccupante: le istituzioni internazionali sono e fanno quello che i governi dei paesi membri vogliono che esse siano e che esse facciano. Per cui non possiamo muovere rilievi al presidente del Consiglio europeo o alla presidente della Commissione. La Commissione lavora esprimendo una volontà sovranazionale, però deve fare i conti con il Consiglio europeo dove ci sono i rappresentanti dei Paesi membri.

Sarebbe auspicabile una governance diversa?

Sì ma non è facile, dal momento che adesso si discute moltissimo su una regola diversa di maggioranza: basta vedere le discussioni che sta suscitando per immaginare quali possano essere gli sbocchi. Per cui, per tornare a Kissinger, capisco le sue difficoltà rispetto a ciò che sta facendo l’Europa. Non dimentichiamo che egli appartiene a quella generazione di giganti alla quale lei ha fatto riferimento, a cui dobbiamo aggiungere come minimo De Gasperi, in grado di operare sul piano internazionale con una visione di lungo periodo.

Come Kissinger risponderebbe alle ultime voci che vogliono in corso un negoziato in Ucraina?

Credo che Kissinger sull’Ucraina abbia da tempo una sua visione, che probabilmente l’avrebbe portato a tentare di tutto pur di evitare la guerra. Una visione molto chiara del ruolo della Russia e anche della posizione internazionale che l’Ucraina avrebbe dovuto avere, in un contesto altrettanto chiaro sul ruolo che dovrebbe svolgere la Cina e soprattutto gli Usa, ritrovando la forza e la capacità di dialogare nei modi opportuni con la Cina stessa.

Se oggi passasse per Manhattan cosa gli direbbe?

Tanti auguri, caro Henry.

@FDepalo



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