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Erdogan rischia la sconfitta dopo 20 anni. Quanto cambierebbe la Turchia?

Gli scenari dopo la sconfitta o un’altra vittoria di Erdogan, come continuerà a muoversi Ankara sul piano internazionale, che cosa potrebbe cambiare e cosa restare uguale. Di sicuro la Turchia non cederà sull’influenza guadagnata, spiega Franceschini (The Square)

Qualcuno le definisce le più importanti elezioni della storia della Turchia; altri parlano del voto principale del 2023. Probabilmente entrambe le letture sono corrette, perché quelle di domenica 14 maggio saranno votazioni (presidenziali e parlamentari) che segneranno un momento per la storia turca, e dunque segneranno una rinnovata fase per uno dei principali attori del Mediterraneo allargato (secondo esercito Nato, 23esima economia del mondo, Paese in cui vivono circa 85 milioni di persone).

Un voto unico

La prima particolarità del voto, la più grossa e quella che lo rende unico in epoca recente, è che per la prima volta negli ultimi venti anni il presidente Recep Tayyp Erdogan potrebbe essere sconfitto. Lo sfidante, alla guida di una coalizione composta da sei partiti è Kemal Kılıçdaroglu (pronuncia: Khe-lutch-dar-olu). Secondo il “Poll of Polls” che fa Politico in questi casi, Kılıçdaroglu è in vantaggio con il 50% dei voti previsti contro il 46% di Erdoğan prima del ballottaggio del primo turno – e questo prima che un altro candidato, Muharrem Ince del Partito della Patria, si ritirasse denunciando di essere stato l’obiettivo di una campagna diffamatoria online (i voti di Ince, dato al 2%, potrebbero passare a Kılıçdaroglu).

Tuttavia il distacco potrebbe essere molto più stretto. I seggi si aprono alle 8.00 di domenica e si chiudono alle 17.00, i risultati sono attesi dopo le 21.00 ora locale perché il sistema di conteggio turco prevede la raccolta delle schede e poi lo scrutinio centralizzato. Dunque i tempi si allungheranno. Va inoltre considerato che i sondaggi in Turchia sono complicati, in parte perché sono diventati influenzati come parte delle misure di contrazione delle libertà innescate dal ventennio di Erdogan; in parte perché coprono piccole regioni e non sono rappresentativi del Paese reale.

Paese diviso

Erdogan è un gigante in patria e nella sua regione; un islamista che ha spinto il suo Paese in una direzione più autoritaria da quando è stato eletto primo ministro nel 2003. Ma un politico che ha saputo gestire i gangli per potere per due decenni. Le elezioni, altra particolarità, coincidono con il centenario della creazione del governo laico turco: con il voto di domenica che è di fatto un referendum sul governo di Erdogan e il risultato mostrerà se i turchi sono pronti – o meno – a rompere con la sua eredità. E il presidente, sebbene descritto come affaticato dalla competizione elettorale, difficilmente rinuncerà a fare di tutto per vincere.

Kılıçdaroglu è un ex burocrate (contabile di formazione) che si sta vendendo come l’anti-Erdoğan – basta leggere l’intervista concessa al Corriere della Sera venerdì per capire come attorno a questo antagonismo ruoti la sua comunicazione politica, interne e internazionale. È stato bravo a costruire una formazione ampia, quanto eterogenea, mettendosi al servizi del consenso piuttosto che polarizzandolo su se stesso; un giocatore di squadra piuttosto che un uomo forte. Politico usa questa descrizione: “Un contabile di formazione ed ex burocrate che si è concentrato sul prezzo delle cipolle, piuttosto che un ideologo economico che ha lasciato che l’inflazione dilagasse”.

Le difficoltà di Erdogan e le opportunità di Kılıçdaroglu

“La sensazione è che l’opposizione ce la potrebbe fare davvero”, commenta da Istanbul Jacopo Franceschini, PhD alla Kadir Has University e fondatore di The Square – Mediterranean Centre for Revolutionary Studies, un boutique think tank  con sede a Milano dedicato allo studio delle rivoluzioni nella regione del Mediterraneo. “Ci sono zone che sono roccaforti dei due principali partiti (il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, Akp, di Erdogan e il Partito popolare repubblicano, Chp, di Kılıçdaroglu, ndr), ma altre in cui possono avere un ruolo partiti minori e questo fa del voto un’incognita a cui si sommano questioni come il terremoto che nelle aree colpite potrebbe influenzare le scelte elettorali, così come potrebbero farlo le minoranze varie”, spiega Franceschi in una conversazione con Formiche.net.

Erdogan è in difficoltà con la crisi economica a cui si sono aggiunti gli effetti devastanti del terremoto che nella notte tra il 5 e il 6 gennaio ha colpito la Turchia e la Siria. A questo si unisce un approval generalmente in declino. Ma ha uno zoccolo duro che gli permette di avere un buon consenso, dunque il punto è capire se chi lo ha votato tornerà a votarlo oppure sarà interessato dalla possibilità concreta di un’alternativa qualunque essa sia, o nello specifico dall’alternativa proposta da Kılıçdaroglu.

Ma che succede se…?

Per Franceschini, uno dei primi scenari da valutare riguarda l’accettazione o meno del voto. Potrebbero in effetti esserci processi formali, come i ricontraggo vari, oppure atti informali come disordini. Per assurdo, non più tardi di tre anni fa le elezioni amministrative di Istanbul sono state annullate per presunti brogli denunciati dai fedelissimi dell’Akp, sconfitti, e poi rivotate. C’erano state molte polemiche perché sembrava che l’annullamento fosse voluto per evitare la sconfitta al partito di Erdogan, ma anche la seconda votazione portò alla vittoria del candidato repubblicano, Ekrem İmamoğlu – İmamoğlu è una star delle politica turca, ma un processo in cui è stato accusato di “insulti a funzionari elettorali” lo ha portata alla condanna a oltre due anni di carcere ed escluso da potenziali competizioni presidenziali.

Davanti alla situazione descritta, la più grande novità che potrebbe uscire dalle urne sarebbe la sconfitta di Erdogan: e se lo scenario di disordini (formali e/o informali) riguardo all’accettazione del voto è quello più critico, cosa aspettarsi da un processo fluido dopo la sconfitta dell’attuale presidente? “Erdogan è da 20 anni saldamente al potere, e quindi farà un’opposizione molto efficace. Per quanto sia visto come un politico affaticato dalla campagna elettorale – risponde Franceschini – è comunque un temibile avversario da avere all’opposizione, soprattutto perché conosce il Paese molto bene e sa come lavorare. Gioca a suo favore il fatto che davanti ha sei partiti con anime molto diverse tra loro. E sa dove muovere le leve, anche perché Kılıçdaroglu si troverà davanti una situazione economica complessa e una ricostruzione post-sismica che assorbirà l’8 per cento del Pil. Dunque una volta al governo, le attuali opposizioni avranno grandi difficoltà pratiche e politiche a gestire la situazione e mettersi d’accordo sul come farlo”.

E nello scenario in cui vincesse, al netto di proteste e contestazioni? “Erdogan ha promesso molto, per esempio un anno di gas gratuito per molte persone in situazioni di difficoltà specifiche, ha recentemente alzato del 45% gli stipendi pubblica amministrazione, ha annunciato progetti efficaci e rapidi per la ricostruzione. Sarà concentrato molto sul come non deludere un elettorato attirato da queste promesse, anche perché Erdogan ha sempre più o meno mantenuto le promesse elettorali. Solo che tutto arriva con quella situazione economica critica e con una maggioranza risicata, dunque avrà da fare per mantenere in piedi tutto il sistema”.

Quale Turchia vedremo nel mondo?

Sebbene la futura postura internazionale dipenderà dal vincitore, e dalle dinamiche interne che si innescheranno in Turchia, secondo Franceschini un vero e proprio cambio strategico nell’agenda di politica estera non ci sarà. “Va detto che Erdogan ha costruito una politica estera molto personale, proprio attorno al suo ruolo all’interno di determinati dossier. E se vince lo vedremo sempre più attivo continuando a mantenere questa politica individuale della Turchia, non troppo allineata con l’Occidente, ma non schiacciata su Russia e Cina. Se vince Kılıçdaroglu possiamo pensare a a un cambio di approccio più che di sostanza: le varie situazioni saranno gestite principalmente delle istituzioni e magari vedremo con l’Ue un rapporto maggiore non solo su temi pragmatici come i migranti, ma anche su questioni più valoriali cercando di restaurare un dialogo”, spiega l’esperto.

Val la pena ricordare che a proposito lo slogan del candidato anti-Erdogan recita “né con Occidente, né con Oriente, ma una Via Turchia”. “La sicurezza – continua Franceschini – e quelli che sono percepiti come argomenti di sicurezza nazionale sono aspetti tenuti in primo piano. I terroristi in Siria, la partita energetica, le dispute per la Grecia sono temi sentiti, e sarebbe una mossa suicida per chiunque abbandonarli o cambiare completamente linea. Così come sarà difficile che Ankara torni indietro rispetto a influenze maturate, come per esempio sul posizionamento in Libia”.

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