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Europa all’avanguardia sui fondi Esg. Paradossi e anomalie

Il Vecchio continente si sta dimostrando ancora più determinato di Washington nell’interrompere ogni relazione economico-strategica con la Federazione Russa. Ecco come e perché nell’analisi di Uberto Andreatta

Da diverso tempo nella comunità degli investitori globali si assiste a un decoupling, in merito alle tematiche ambientali, sociali e di governance (Esg), tra il sottoinsieme degli asset owners e managers americani e quelli europei. Il primo raggruppamento vede sempre più acuirsi le tensioni al proprio interno, in particolare sotto la spinta dei fondi pensione degli Stati del Midwest e del Sud del Paese, tra i fautori di un abbandono di tali tematiche come criteri guida delle scelte di investimento e i sostenitori, sul fronte opposto, di un approccio ancora più radicale in senso contrario.

Al di qua dell’Atlantico, invece, le direttive che vengono impartite ai percettori dei flussi di investimento, in modo uniforme rispetto a tutti i settori industriali e agli investment stages, sono omogenee nell’indicare l’Esg come un elemento indefettibile della strategia oramai lungo qualsiasi orizzonte temporale.

Se ne trova conferma in una recentissima ricerca di Morningstar, citata dal Financial Times, che evidenzia come negli ultimi dodici mesi i fondi recanti l’etichetta “sostenibile” abbiano subito flussi in uscita netti per $ 12,4 miliardi negli Stati Uniti e flussi in entrata per $ 126 miliardi in Europa, facendo quindi del Vecchio continente l’avanguardia del movimento Esg a livello planetario. A ciò fa riscontro una politica da parte dei grandi asset managers americani, BlackRock in particolare, che lascia maggiore libertà di scelta ai propri clienti rispetto alle attività di monitoraggio e di engagement nei confronti delle società in cui investono.

Il fenomeno, a ben guardare, presenta diverse anomalie, non foss’altro perché nella classifica degli asset managers globali, ben otto su dieci (fonte: Statista, marzo 2022) provengono dalla sponda ovest dell’Atlantico, mentre gli unici due europei (Ubs e Allianz) occupano rispettivamente il terzo e l’ottavo posto della classifica. A rigore, quindi, avendo i primi un’estesa operatività anche in Europa, ci si dovrebbe attendere che le lacerazioni di cui sono vittima si riproducano anche nella sponda est.

Al contrario, asset owners, asset managers e autorità pubbliche europee stanno agendo in sincrono per accelerare il processo di decarbonizzazione e renderlo definitivo nel più breve tempo possibile, come dimostrato anche dal complesso di provvedimenti comunitari volti ad azzerare i combustibili fossili come fonti di energia per i settori del trasporto e del riscaldamento.

I risvolti della vicenda sul piano geopolitico sono notevoli. Proprio mentre sembrano prendere nuovo vigore sul piano politico le istanze isolazionistiche che l’ex presidente Donald Trump sette anni fa seppe meglio di tutti impersonificare e portare alla Casa Bianca, l’Europa adotta politiche e scelte di investimento radicali sul piano energetico avvicinando di molto il momento in cui pressoché ogni legame economico-strategico che la vincola alla Russia monoprodotto verrà reciso. Anzi, considerando che i processi industriali complessi necessitano di diversi anni di riprogrammazione prima dei momenti di switch-off, si può ragionevolmente affermare che il net zero è già tra di noi o quanto meno che la direzione di marcia non può più essere invertita.

Il paradosso si arricchisce ulteriormente – come si evince anche dalle recenti esternazioni del governatore della Florida Ron DeSantis – del fatto che i sostenitori del movimento Maga e dell’America introvertita sembrano non essere così risoluti, differenziandosi così dalle istanze neo-con o liberal interventionist, nel garantire a Kiev anche solo il livello attuale di supporto allo sforzo bellico contro Mosca.

In altre parole, mentre matura la convinzione che negli Stati Uniti, sia a livello di opinione pubblica che di apparati, si affievolisca l’interesse per le vicende europee e per il perseguimento dei propri obiettivi strategici nell’area, il Vecchio continente non assume posizione terze, come in altre parti del mondo, tra la superpotenza e quelle che la sfidano ma semmai si dimostra ancora più determinato di Washington nell’interrompere ogni relazione economico-strategica con la Federazione Russa.

In questo quadro, sono destinati ad assumere molta più importanza, anche e soprattutto sul piano strategico, i processi di nomina delle leadership in campo economico-finanziario rispetto a quelle in campo politico così come il sentiment di piccoli e grandi investitori andrà misurato con la stessa regolarità di quello delle opinioni pubbliche continentali e dei rispettivi organi politici rappresentativi. Sempre che anche da noi qualcuno non cominci a sventolare la bandiera anti-woke.


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