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Troppa politica e poca crescita. La marcia indietro delle banche Usa in Cina

Solo pochi mesi fa i giganti di Wall Street pianificavano l’espansione commerciale nel Dragone. Ma la crescita sotto le aspettative, le ingerenze del governo e la mina Svb hanno mandato all’aria tutto

La grande finanza americana ha deciso di voltare le spalle alla Cina in piena crisi di fiducia e rea di non aver dato le giuste garanzie a chi voleva investire. Come siamo arrivati a questo punto? Sul finire della pandemia, vere e proprie istituzioni del capitalismo statunitense e dunque mondiale, come Morgan Stanley, Jp Morgan, Goldman Sachs e molte altre, avevano deciso di avviare un piano di espansione nel Dragone.

Più uffici, più filiali, più affari, complice la momentanea mano tesa del governo di Xi Jinping, conscio del fatto che senza un ponte, seppur piccolo, con l’Occidente, è impossibile sopravvivere. Sembrava fatta, eppure qualcosa si è inceppato. Un po’ la crescita cinese più fiacca del previsto, un po’ il debito fuori controllo e le prime vere insolvenze sui territori, un po’ le tensioni tra i due governi, il risultato è stato scoraggiare le grandi banche. Poi ci si è messo di mezzo il terremoto di Svb, e come ha raccontato Bloomberg, alla fine è arrivato l’ordine di scuderia, per un ripiegamento generale.

“Goldman Sachs e Morgan Stanley”, ha scritto l’agenzia di stampa Usa, “sono tra le banche che stanno ridimensionando gli ambiziosi piani di espansione in Cina, a causa del deterioramento del clima geopolitico e della direzione sempre più autoritaria del presidente Xi Jinping. Goldman Sachs ha rivisto le proiezioni sul suo piano quinquennale di espansione in Cina, dopo che il contesto imprenditoriale del Paese è cambiato drasticamente. Mentre Morgan Stanley sta scegliendo di non costruire un broker onshore, oltre a pianificare un altro giro di tagli di posti di lavoro che interessano il 7% dei dipendenti dell’Asia-Pacifico”.

Non ci sono dubbi. Le mosse citate rappresentano un chiaro ripensamento per molti dei giganti di Wall Street, che fino a 18 mesi fa erano intenzionate ad affrontare le enormi banche cinesi sul loro stesso territorio. “Questo mutamento”, ha spiegato Mark Williams, professore di Finanza alla Boston University, “è figlio del fatto che le grandi banche americane sono vulnerabili ad azioni politiche che potrebbero infliggere danni finanziari e materiali ai loro stessi azionisti. Mentre molte banche stanno eliminando posti di lavoro a livello globale, i tagli in Cina sono i maggiori da anni e in molti casi sono relativamente più profondi rispetto al resto del mondo”.

Il fatto è che l’economia cinese sta lottando per rimettersi in piedi dopo anni di restrizioni per il Covid e repressioni su tutto, dalla tecnologia finanziaria all’istruzione privata fino al settore immobiliare. “Le banche di Wall Street avrebbero dovuto prendere in considerazione i rischi geopolitici molto tempo fa”, ha chiarito Chen Zhiwu, professore di finanza presso la Business School dell’Università di Hong Kong. “Nei prossimi cinque anni, lo scenario migliore per loro è che la Cina inverta direzione e torni a una vera politica della porta aperta e riforme del mercato, rivitalizzando il contesto imprenditoriale. Questo è uno scenario estremamente improbabile ma non impossibile”.


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