Un piano migrazioni deve coinvolgere tutta l’Europa, l’America e la Turchia che il 14 va a un voto che potrebbe riservare qualche sorpresa. Il rischio più grande è la perdita della calma, e il contrasto tra le esigenze di breve termine dei vari paesi europei. Tali esigenze sono legittime, come è anche legittimo che la questione migratoria sia al centro del dibattito elettorale. Proprio per questo occorre trovare un registro di saggezza e lungimiranza
Ha ragione la Francia o l’Italia nella recente polemica fra cugini sull’immigrazione, evento epocale che sta cambiando l’identità di entrambi i paesi? Non ci sono ragioni o torti in scambi di accuse e insulti che mascherano la sensazione reciproca di impotenza per un fenomeno senza soluzioni semplici o in tempi brevi.
È forse da questa frustrazione che entrambi i paesi devono uscire per trovare un cammino che deve essere necessariamente comune e travalichi i confini di tempo di diverse amministrazioni. Non c’è un presidente francese o un premier italiano che da soli o nel periodo del proprio mandato possano risolvere la questione migranti.
Né la Francia può pensare che la sua storica presenza in Africa sia la risposta; come non è la risposta il piano italiano per l’Africa “Mattei”, un nome controverso oltralpe. Un piano deve coinvolgere tutta l’Europa, l’America e la Turchia che il 14 va a un voto che potrebbe riservare qualche sorpresa.
Occorre pazienza e diplomazia, perché senza, ci sono conflitti che non risolvono l’immigrazione ma semplicemente l’aggravano. E senza diplomazia e trattative c’è solo guerra. Sarebbe paradossale che quelli che vogliono la pace con la Russia subito in Ucraina invece vogliano la guerra domani con il vicino.
Da un punto di vista di ordine pubblico gli immigrati non si fermano a Ventimiglia. Cercare di bloccarli lì, se pure avesse successo, trasformerebbe l’Italia nella Libia del nord, e i problemi francesi di oggi domani sarebbero moltiplicati.
Non si possono fermare in mare. La recente tragedia di Cutro lo ha drammaticamente dimostrato.
Non si fermano bruciando i barchini o i barconi, perché gli imbarchi avvengono con complicità più importanti e il flusso in arrivo dell’Africa creerebbe un ingorgo impossibile sulle coste libiche.
Non si fermano nel deserto perché quello è solo un passaggio e si imbiancherebbero le sabbie solo di nuovi scheletri che domani grideranno vendetta.
Ma neppure bisogna rinunciare a guardare a tutte queste cesure e concentrarsi solo a cambiare il destino del sub Sahara. Occorre guardare a tutti i pezzi del mosaico e farlo in insieme. Non c’è un paese in Europa che abbia la chiave di volta esclusiva per una soluzione autentica.
Il rischio più grande è la perdita della calma, e il contrasto tra le esigenze di breve termine dei vari paesi europei. Tali esigenze sono legittime, come è anche legittimo che la questione migratoria sia al centro del dibattito elettorale. Esso è il cuore della democrazia e certamente i cittadini hanno mille ragioni di esserne preoccupati.
Proprio per questo occorre trovare un registro di saggezza e lungimiranza e spogliare la questione dalle punte polemiche che non la risolvono ma la aggravano.
Tutto ciò, bisogna ammetterlo, sono banalità, è la scoperta dell’acqua calda, come avrebbe detto un illustre storico del tè, Marco Ceresa, scomparso in questi giorni.
Eppure niente è più bello, buono e salutare dell’acqua calda. In tempi di bibite dolci, frizzanti e ghiacciate, forse occorrerebbe ricordarlo.