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La Cina è l’elefante nella stanza del G7. Scrive l’amb. Castellaneta

I leader si riuniranno tra una settimana a Hiroshima. Il tema più scottante saranno le relazioni con Pechino, cercando una quadra tra la sicurezza nazionale e il mantenimento di un equilibrio internazionale che rischia di diventare sempre più precario. Il commento di Giovanni Castellaneta, già consigliere diplomatico a Palazzo Chigi e ambasciatore negli Stati Uniti

A meno di una settimana dall’inizio del vertice dei leader del G7, che si terrà in Giappone a Hiroshima, mai come quest’anno si può parlare di “elefante nella stanza”: un elefante che, curiosamente, assume le sembianze di un Dragone. Insomma, al di là dei giochi di parole, sembra quasi fin troppo scontato che il tema più scottante con cui avranno a che fare i partecipanti al summit sarà quello delle relazioni future con la Cina. Un dibattito che sarà guidato non dalla presidenza di turno giapponese (che comunque non avrà problemi a favorire la discussione considerati i rapporti tradizionalmente difficili con Pechino) ma dagli Stati Uniti, a cui i Paesi europei cercheranno di accodarsi nel tentativo non semplice di adottare una posizione comune.

Partiamo dunque dagli Stati Uniti, che sono responsabili di aver dato il “la” alla discussione – accademica o pratica, dipende da quale prospettiva si voglia guardare – sul decoupling geoeconomico dalla Cina. L’amministrazione Biden si è mostrata ancora più dura di quella precedente nei confronti di Pechino, adottando misure di restrizione commerciale di ampia portata e deliberatamente finalizzate a ritardare il progresso tecnologico cinese in settori chiave per la sicurezza nazionale statunitense. Ma fino a che punto si può spingere Washington, in un contesto che ad oggi vede ancora gli scambi commerciali altamente globalizzati? Nelle scorse settimane ci sono stati due interventi che possono aiutare a tracciare i confini delle prossime mosse. Da una parte, Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale, in un discorso al think tank Brookings ha indossato i panni del “falco” sottolineando che le misure adottate dagli Stati Uniti sono state dettate da preoccupazioni legittime e che quindi è necessario rendersi relativamente autonomi dalla Cina in modo che quest’ultima non danneggi gli interessi strategici americani. Dall’altra parte Janet Yellen, segretaria al Tesoro, parlando alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies, ha fatto uso di un linguaggio più da “colomba” sostenendo che non è possibile fare a meno della partnership economica con la Cina, la quale va dunque incentivata a competere lealmente secondo le stesse regole del gioco. Due ruoli, quello del poliziotto buono e di quello cattivo, che sicuramente evidenziano la coesistenza di posture diverse nell’amministrazione democratica, ma che alla fine dei conti perseguono lo stesso obiettivo: quello di difendersi dalla concorrenza economica ostile cinese e di compattare l’Occidente nei confronti di questo comune avversario.

Dall’altra sponda dell’Atlantico c’è invece l’Europa, con le sue posizioni molteplici. L’Unione europea – che al G7 partecipa a pieno titolo come “ottavo membro” – ha coniato attraverso le parole di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, il nuovo mantra del “derisking”: un termine che vuole essere volutamente più morbido e meno minaccioso di un “decoupling” tout court, e che sostanzialmente propone una maggiore diversificazione dei rapporti commerciali europei anziché una rinuncia agli scambi con la Cina. Un approccio che sembra ragionevole e che cerca di trovare un denominatore comune tra le diverse sensibilità dei principali Stati membri: dalla Germania, che è la più restia a tagliare i ponti con Pechino per i forti interessi economici delle sue principali aziende (vedi per esempio Volkswagen), alla Francia che ha adottato invece una posizione più assertiva. E l’Italia? Giorgia Meloni si troverà in una posizione molto delicata, in quanto leader dell’unico Paese G7 ad aver aderito ufficialmente alla Via della Seta. A breve il memorandum d’intesa siglato nel 2019 da Giuseppe Conte scadrà, e toccherà all’attuale presidente del Consiglio decidere se rinnovarlo o cestinarlo. Qualunque sia la decisione, qualcuno resterà scontento.

Insomma, dal G7 ci si attende un approccio risoluto ma cauto. Pensare di rinunciare agli scambi con la Cina è impossibile nel panorama economico odierno: tirare troppo la corda sarebbe controproducente e rischierebbe di esacerbare inutilmente le tensioni geopolitiche tra Washington e Pechino. Ai leader riuniti a Hiroshima si chiede la capacità di trovare la quadra tra la difesa legittima della propria sicurezza nazionale e il mantenimento di un equilibrio internazionale che rischia di diventare sempre più precario.



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