Al convegno “Nazione e patria” il presidente del Consiglio è intervenuta con una riflessione sui due concetti considerati società naturali e ha ricordato che l’essenza della natura umana contempla non un mondo fatto di individui separati, avidi ed egoisti, ma è costituito da soggetti collettivi coesi, generosi, consapevoli e aperti ad inserirsi nel più vasto contesto globale. Il commento di Benedetto Ippolito
Le parole espresse stamani dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni sono di grande rilevanza. Non si tratta, infatti, di uno dei tanti interventi che il capo di governo è tenuto a fare, e nemmeno di una semplice e formale apparizione ad un evento culturale organizzato dal Senato della Repubblica, con la presenza autorevole di studiosi del calibro di Francesco Perfetti e di Marcello Pera.
Parlare di nazione è scomodare una categoria politica che ha una rilevanza etica fondamentale, accompagnata tuttavia sempre alla difficoltà di restare fedeli ad una semantica che sia corretta, sottratta ad ambiguità e priva di incrostazioni storiografiche ed ideologiche fuorvianti.
Il richiamo a Ernest Renan, da lei proposto, è stato sicuramente giusto e opportuno, se non altro per l’influenza esercitata dalla sua famosa conferenza tenuta alla Sorbona l’11 marzo 1882: “Che cos’è una nazione?”, con la quale lo studioso francese ha contribuito al diffondersi nel ‘900 di un corretto concetto, tanto antico quanto ambiguo, di patriottismo. È vero che la nazione è un plebiscito quotidiano ed è ancor più vero che la nazione, espressione dell’autentico amore di patria, appartiene alla natura umana intrinsecamente, come l’acqua alla sua sorgente o come una pianta alle sue radici.
Può essere interessante, alla stregua di ciò, capire il perché di questo legame antropologico e assumerne il senso in funzione della varietà di popoli che esistono sulla Terra, in modo da distinguerne l’accezione valida dal nazionalismo aggressivo e dal razzismo fanatico. Al nostro Dante Alighieri, formato alla cultura sofisticata dell’aristotelismo cristiano medievale, la patria italiana è apparsa sotto le vesti primordiali ma corrette della lingua nazionale, per lui il toscano, e con le vesti di una precisa coincidenza comunitaria, perfettamente compatibile con i tanti piccoli regni, ducati e principati, e persino con la presenza al centro della Penisola del divisorio Stato della Chiesa.
La nazione è, infatti, un risultato storico, una sorta di memoria collettiva, solidificata in valori comuni e particolari, solo successivamente coincidenti con uno Stato; e, proprio per questo, la nazione è espressione anche dell’essenza universale del genere umano che si fa Stato, in tutte le sue ordinate varietà identitarie.
Si accorse di questo Charles Maurras, che fu del nazionalismo francese monarchico profeta e impareggiabile apologeta, specialmente quando, ormai anziano, perseguitato ed emarginato, affermò provocatoriamente, in un suo libro del 1948 titolato “L’ordine e il disordine”, che “l’umanità è la nazione”, sottendendo così che senza le diverse comunità naturali non può esservi futuro né per la patria francese, né per l’intero genere umano.
Ho citato Maurras perché egli, davanti all’espansione hitleriana, distinse molto nettamente il nazionalismo buono, difensivo della particolarità di un popolo, dal nazionalismo cattivo, espansionista e distruttore delle altrui civiltà.
Forse è vero che la nazione è stato uno dei grandi miti neo romantici del secolo scorso, ma sicuramente non è stato mai soltanto questo e non è un retaggio destinato a morire soprattutto oggi. Oltretutto, anche un nazionalista come Enrico Corradini, seguendo Maurice Barres, ha sempre affermato che la patria non è questione di razze e di etnie, ma di un legame naturale arcaico, tradizionale e originario, molto più ancorato alla terra dove si nasce e in cui si resta necessariamente inseriti, che al resto: ricordi, nostalgie, consapevolezze, sentimenti che generano una sorta di spontaneo, benevolo e generoso amore pietoso e condiviso per le persone morte, per i vivi che ci sono affini e per i luoghi dove si è cresciuti fianco a fianco.
Insomma, è grandioso tutto questo, ed è anche profondamente umano: la nazione è un fatto di natura, viene dal nascere in un luogo e motiva il rimanerci o il ritornarci come auspicio elevato ed eroico, materiale e spirituale della vita personale. Ed è altrettanto vero che, al pari della famiglia, noi tutti siamo figli della nostra nazione, che ci ha fatto e formati come civiltà distinta, di cui costituiamo l’approdo temporaneo e la provvisoria destinazione, con la missione però di restarle fedeli e costanti alla sua verità nel trasmettere l’eredità ricevuta in modo propulsivo, produttivo e integro alle future generazioni.
Tommaso d’Aquino, nel suo trattato “De regno”, ha interpretato la città greca già nel senso di una comunità più vasta, la civitas, la quale, pur non essendo ancora la nazione in senso moderno, non era certo più neanche l’Impero in senso classico. Questa idea finita di società, più grande della famiglia e meno estesa dell’umanità, ha segnato una tappa cruciale nel configurare a livello teorico un avvenire europeo, privo di anarchia e disgregazione, ma anche non appiattito ad un’omogenea univocità acefala e inconsistente. Non è un caso che Alfredo Rocco, enfatizzandola, rimandasse l’idea di nazione proprio a quella tradizione cristiana medievale, incentrata sulla naturale socialità dell’essere umano e sulla sua volontà di essere una specifica civiltà giuridica.
Uno Stato, d’altronde, non è mai mondiale e universale, ma sempre nazionale e particolare. La societas limitata perfecta è per essenza una comunità che ha confini identitari netti, perché solo in essi può crescere il bene comune come antidoto all’avida volontà di potenza e di distruzione individuale, da Isidoro di Siviglia già definita spregiativamente “comodità privata”. Non muri e barriere, ma una chiara comunità localizzata e precisa: questo è il senso culturale di una consapevole società concreta di tipo nazionale.
Perciò, Roger Scruton ha parlato dell’identità di una nazione come condizione sostanziale del buon funzionamento di un corretto e maturo pluralismo democratico. Per distinguersi e contrapporsi individualmente, senza uccidersi, bisogna, infatti, che i cittadini condividano almeno quell’univoca base specifica di legami e valori spirituali che hanno insieme, al di fuori dei quali non avrebbe senso concorrere liberamente al potere e financo discutere in una riunione di condominio.
Meloni, dunque, ha fatto bene a ricordare che l’essenza della natura umana contempla non un mondo fatto di individui separati, avidi ed egoisti, ma costituito di persone, famiglie e nazioni che siano sane e forti: soggetti collettivi coesi, generosi, consapevoli e aperti ad inserirsi poi nel più vasto contesto globale.
Jacques-Benigne de Bossuet, celebre precettore del Delfino di Francia, ha ben espresso questo dato ontologico naturale di partenza del patriottismo, affermando non soltanto il valore imperituro della nazione alla radice dell’essere umano, ma anche il suo profondo significato cristiano. Agostino Gemelli, da par suo, parlava della nazione italiana come di un singolo Stato cristiano, intendendo con questa espressione non l’identificazione surrettizia e tutta orientale di religione e politica, ma l’esatto opposto: la specificità politica nazionale della cristianità universale.
Far crescere la “coscienza nazionale” è, d’altronde, un perno anche della sociologia cattolica e liberale di Luigi Sturzo, costruita attorno al primato dello spirito popolare, che collega una nazione libera alla memoria dei propri avi per progettare al meglio il suo futuro.
Insomma, seguendo questa importante suggestione, possiamo concludere che è apprezzabile che si dia sostegno ed espansione alla nostra identità nazionale, facendone conoscere al mondo le tante sfumature, pensando l’umanità come una grande società costituita da piccoli soggetti comunitari diversi che si sentono tuttavia uniti e non minacciati nel legame a quella più vasta e intermedia realtà che chiamiamo Europa.