Le recenti visite alla Casa Bianca e gli appuntamenti futuri segnano inequivocabilmente l’interesse americano per l’Indo Pacifico. Il valore delle alleanze, in questa fase in cui economia e interesse nazionale si saldano, diventa evidente nella “dottrina Biden” delineata dal consigliere Sullivan
A gennaio il primo ministro giapponese, Fumio Kishida; ad aprile il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol; a maggio il filippino Ferdinand Marcos Jr: tutti alla Casa Bianca nel giro dei primi mesi del 2023. A segnare l’orientamento americano verso l’Indo Pacifico basterebbe già questo. Da aggiungerci anche l’importante visita di Tsai Ing-wen, presidente taiwanese, in California e a New York; e poi a fine 2022 il summit con il blocco Asean, la strategic partnership con l’Indonesia.
A marzo anche la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, era stata a Washington e pure in quel caso però, se la guerra russa in Ucraina era stata l’argomento tattico di attualità, molte delle discussioni avevano riguardato come integrare l’Europa nella prioritizzazione strategica verso Oriente che l’America sta marcando in questo periodo — e continuerà a farlo nel futuro.
Narrazioni e interessi
Si aggiunga che in ripartenza dal G7 di Hiroshima, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, vedrà il primo ministro indiano, Narendra Modi, per un vertice con i leader delle Isole del Pacifico che è stato definito “un incontro storico orientato al futuro”, dal premier della Papua Nuova Guinea, James Marape, che sarà ospite dell’incontro. E dai corridoi di DC si parla di una visita a breve di Modi alla Casa Bianca. Non solo, in quegli stessi giorni Biden dovrebbe anche andare in Australia per il vertice tra i leader del Quad.
Il messaggio è chiaro: la regione indo-pacifica è il centro delle attenzioni. Sebbene gli Stati Uniti costantemente rassicurino gli alleati in altre aree del mondo che la loro concentrazione non sta calando (per esempio i mediorientali, gli europei o gli africani), le risorse impegnate in quel complesso quadrante non sono paragonabili con altre. Le agenzie statunitensi per esempio arricchiscono costantemente le unità che coprono la regione, che incrocia le sue dinamiche con quelle della Cina — il principale competitor globale dell’America presente e futuro.
Coinvolgimento totale
In un’immagine: quattro delle unità navali più avanzate della marina americana — le portaerei Nimitz e Reagan, le navi da assalto anfibio Makin Island e America — sono attualmente impiegate con i loro gruppi da battaglia nell’Indo Pacifico. Nessuna si trova nell’area che in Italia definiamo Mediterraneo allargato — che comprende il sud europeo, la regione mediorientale e parte dell’Africa — in attesa che la George Washington venga rimpiazzata dalla Ford. Nessuna nei mari nord europei. È un significativo impiego di risorse che serve a mandare messaggi di deterrenza (contro la Cina, ma anche contro la Russia che manifesta un interessamento secondario al quadrante, ma non ininfluente).
È anche un messaggio di fiducia verso quegli alleati che stanno alla base della strategia statunitense e che al di là dei più mediatici incontri di altissimo livello sono costantemente coinvolti in attività di vario genere. Vertici tra militari ed esercitazioni congiunte per aumentare l’amalgama operativa e non solo delle partnership; meeting economici, finanziari, commerciali, industriali; progetti comuni su temi di ampio respiro come il cambiamento climatico o la sicurezza delle supply-chain, alimentare, energetica; scambi culturali e politico-parlamentari. Sono stati una miriade gli appuntamenti di questi primi mesi.
L’Indo Pacifico e la dottrina Biden
Complice anche lo scombussolamento globale prodotto dalla guerra russa, Washington ha chiaramente desiderio — e necessità — di farsi trovare presente, pro-attiva e disponibile all’ascolto. Pochi giorni fa, parlando alla Brookings Institution (il numero uno dei think tank nel mondo) il consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense, Jake Sullivan, ha delineato quello che può essere considerato il perimetro di una “dottrina Biden” — non a caso le parole di Sullivan escono poco dopo il lancio della ricandidatura presidenziale del democratico. Parlando di come l’ordine economico post-guerra fredda abbia sostanzialmente fallito — perché ha indebolito il fronte interno statunitense, ha eroso il primato tecnologico ammirano ed è servito alla Cina per ridurre il divario con gli Stati Uniti — Sullivan ha tracciato con totale chiarezza lo strettissimo legame tra economia e sicurezza nazionale, che passa naturalmente per il rafforzamento di partnership strategiche globali.
Per il consigliere della Casa Bianca, le alleanze servono a contrastare quelli che considera tentativi di destabilizzazione di Russia e Cina all’ordine mondiale. “La creazione di un’economia sicura e sostenibile di fronte alle realtà economiche e geopolitiche richiederà a tutti i nostri alleati e partner di fare di più, e non c’è tempo da perdere”, ha detto. E ha aggiunto: “Abbiamo progettato gli elementi di un’ambiziosa iniziativa economica regionale, l’Indo-Pacific Economic Framework, per concentrarci su questi problemi e risolverli. Stiamo negoziando con tredici Paesi dell’Indo Pacifico capitoli che accelereranno la transizione verso l’energia pulita, implementeranno l’equità fiscale e combatteranno la corruzione, stabiliranno standard elevati per la tecnologia e garantiranno catene di approvvigionamento più resistenti per beni e fattori di produzione critici”.