La Jihad islamica palestinese ha lanciato dozzine di missili per colpire le aree civili israeliane. Gerusalemme ha ucciso alcuni comandanti dell’organizzazione e svariati civili. Il rischio che gli scontri degenerino verso un contatto tesissimo
Le fazioni armate palestinesi a Gaza hanno lanciato oltre 400 razzi verso Israele in risposta agli attacchi aerei contro tre alti comandanti della Jihad islamica palestinese (Pij). È la più grande escalation a Gaza dallo scorso agosto, quando Israele ha condotto un’operazione di quasi-guerra contro i gruppi armati. Soprattutto, gli scontri si inseriscono in un momento tesissimo della questione palestinese, con le iniziative radicali del governo di destra israeliano che diventano un obiettivo perfetto per i gruppi combattenti.
Conteso critico
L’aviazione israeliana ha iniziato gli attacchi aerei nella notte tra lunedì e martedì. Tra i target è stato eliminato Ali Ghali, il comandante della Forza di lancio di razzi della Jihad islamica, considerato una figura centrale dell’organizzazione sia per carisma che per conoscenze tattiche e tecniche. Ma a Gaza sono stati uccisi anche dieci civili in questa serie di attacchi, tra cui donne e bambini. L’esercito israeliano ha dichiarato che l’aviazione ha condotto altri attacchi martedì pomeriggio e mercoledì, colpendo operativi del Pij, però come spesso accade ci sono finiti di mezzo anche innocenti. E la vicenda arriva con un peso simbolico nei giorni dell’anniversario dell’uccisione della giornalista Shireen Abu Akleh, reporter palestinese naturalizzata americana di Al Jazeera rimasta uccisa dai proiettili israeliani l’11 maggio dello scorso anno mentre copriva un raid nel West Bank.
Risposta tardiva?
La Pij ha una serie di opzioni di attacco costantemente pronta, eppure ha dovuto attendere un giorno e mezzo prima della reazione. Potrebbe essere possibile che eliminazioni come quelle di Ghali abbiano alterato i processi di command & control interni al gruppo. La gran parte del contrattacco palestinese è stata per altro, come quasi sempre accade, inefficace: un’alta percentuale dei razzi è stata intercettata dal sistema Iran Dome israeliano, circa il 25% sono caduti direttamente sul territorio palestinese prima di superare il confine. Secondo alcune ricostruzioni dei media israeliani, la Pij aveva in mente di rispondere con “qualità”, ossia colpire obiettivi di più alto livello, anziché la solita salva di razzi (quasi sempre poco efficace) – e probabilmente è mancata di capacità di riorganizzazione rapida.
25% of rockets launched by the Islamic Jihad have fallen in Gaza.
These misfires killed four innocent civilians including a ten year old.
The Islamic Jihad isn’t just a threat to Israel. It’s a threat to the innocent men, women and children in Gaza that it happily places in… pic.twitter.com/8KfG8sqsB8
— Israel ישראל (@Israel) May 11, 2023
Narrazioni e interessi
Un portavoce della Jihad islamica ha dichiarato martedì che è il gruppo a fare “le regole nel combattere il nemico e tutte le opzioni sono aperte in risposta ai crimini dell’occupazione”. E nel frattempo anche Hamas ha rilasciato una dichiarazione in cui sottolineava che quella in corso era una risposta congiunta da parte di tutte le fazioni di Gaza. Non è chiaro quanto questo sia vero o propaganda: Hamas ha interesse nel raccontarsi comunque nella partita. Necessità di immagine che ha in quanto è il gruppo che controlla la Striscia di Gaza e non vuole perdere occasione per dimostrarsi aggressivo contro Israele e contro il governo attuale.
Mediazioni in corso…
Nel frattempo, l’Egitto starebbe cercando di trovare una forma di mediazione per evitare che gli scontri si approfondiscano. Il rischio è che si ricrei una situazione più complessa di quella dello scorso anno, anche esacerbata dal contesto innescatosi. Il Cairo è consapevole che giocare un ruolo in questo momento potrebbe essere utile sia agli occhi israeliani che a quelli dei partner del Golfo, che stanno distendendo o normalizzando le relazioni con Israele ma davanti a certe situazioni evitano eccessive esposizioni pubbliche perché devono mantenere un equilibrio tra gli interessi strategici e l’umore dei propri cittadini (in molti casi più vicini alla causa palestinese di quanto si creda).
… e movimenti internazionali
Se le prossime ore saranno significative per capire quanto gli egiziani saranno stati in grado di stringere, incontrando peraltro quello che pare essere un buon consenso da parte israeliana, che secondo le fonti locali non intende aumentare l’intensità e la durata degli scontri, i prossimi mesi saranno importanti per il rapporto di Gerusalemme con Washington. E il quadro si lega anche alla quesitone palestinese e al governo israeliano. Tom Nides, ambasciatore statunitense nel Paese da due anni, ha annunciato la sua partenza. Lascerà per ragioni personali (vuole stare con la sua famiglia), ma la sede resterà vacante in un momento in cui la controversa revisione giudiziaria del governo Netanyahu continua a complicare le relazioni tra Stati Uniti e Israele. Il presidente Joe Biden non ha ancora invitato il primo ministro Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca, a più di quattro mesi dal giuramento del leader israeliano. Non è prassi normale, ma è noto che tra i due i rapporti siano freddini.