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Italia-Francia e la sindrome del brutto anatroccolo. Scrive Cangini

Non si tratta tanto di avere buoni rapporti con la Francia, dal cui gradimento in buona parte dipende il futuro delle nostre politiche migratorie, del nostro Pnrr e del Patto di stabilità europeo in corso di riforma. Si tratta di guadagnarsi il rispetto delle istituzioni europee e di ciascuno degli Stati membri

Stavolta, Giorgia Meloni ha tutte le ragioni e la decisione del ministro degli Esteri Antonio Tajani di annullare il bilaterale parigino appare senz’altro giustificata. Ma, sia chiaro, le politiche dell’immigrazione non c’entrano. C’entrano in parte le incombenti elezioni europee, tuttavia, per dirla con espressione marxista, si tratta di una sovrastruttura. Se Italia e Francia si trovano nuovamente ai ferri corti, infatti, è soprattutto a causa della sindrome del brutto anatroccolo.

Il brutto anatroccolo è lei, Giorgia Meloni. Ed è così che, a torto o a ragione, la vede la maggioranza dei partner europei. La provenienza politica missina e soprattutto gli anni trascorsi all’opposizione in Italia lisciando il pelo ai partiti europei più estremisti rappresentano per lei uno stigma. La rendono diversa: un brutto anatroccolo, appunto.

Ad avvertire il problema sono soprattutto i francesi, che in lei ricordano la sodale dell’arcinemica Marine Le Pen: una con cui non solo i socialisti o i macroniani, ma anche la destra gollista non prenderebbe mai neanche un caffè. E questo vale a Parigi così come a Bruxelles o a Strasburgo. C’è, dunque, una logica se, rispondendo alle accuse lepeniste di incapacità nella gestione dei migranti, il ministro degli Interni francese Darmain, probabile candidato alle prossime presidenziali al posto di Macron, ha attaccato Giorgia Meloni. L’ha attaccata in quanto “capo di un governo di estrema destra” poiché “amica della signora Le Pen”. Quella signora Le Pen con cui Darmain dovrà forse vedersela alle presidenziali; quella signora Le Pen il cui risultato alle Europee del maggio 2023 va contenuto con ogni mezzo.

A differenza di Matteo Salvini, che alle presidenziali francesi dello scorso anno fece esplicita dichiarazione di voto in favore Marine Le Pen, sua alleata nel gruppo europeo di Indentità e democrazia, Giorgia Meloni non disse una parola. Evidentemente, sapeva che il proprio destino era quello di ritrovarsi a Palazzo Chigi nella funzione di presidente del Consiglio e sapeva che per poter esercitare quella funzione lo stigma lepenista sarebbe stato esiziale.

Non si tratta tanto di avere buoni rapporti con la Francia, dal cui gradimento in buona parte dipende il futuro delle nostre politiche migratorie, del nostro Pnrr e del patto di stabilità europeo in corso di riforma. Si tratta di guadagnarsi il rispetto delle istituzioni europee e di ciascuno degli Stati membri, sia quelli governati dalla sinistra sia quelli governati dalla destra. Perciò Giorgia Meloni ha tutto l’interesse a far cadere l’aggettivo qualificativo “estrema” dal sostantivo “destra” con cui si identifica. Perciò è decisivo per il futuro politico della leader di FdI e per il presente dell’Italia che il suo partito si dia un’identità meno nostalgica e più liberale e soprattuto che la manovra di avvicinamento del gruppo dei Conservatori europei al Ppe si concluda con un successo trasformando di conseguenza il brutto anatroccolo in un bel cigno, ancorché nero.

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