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Francesco e Zelensky, due visioni non coincidenti. L’analisi di D’Anna

Sono molti e di vasta portata internazionale gli effetti della visita a papa Francesco in Vaticano del presidente dell’Ucraina Zelensky. Il pontefice spera nella pace, Kiev nella vittoria militare. L’analisi di Gianfranco D’Anna

La Chiesa Cattolica è con l’Ucraina. Il papa benedice la controffensiva di Kiev e di fatto scomunica Putin: in sintesi è questo l’obiettivo mediatico, prima ancora che politico, della visita a Roma di Volodimyr Zelensky. Dopo l’incontro col pontefice, il presidente ucraino si recherà al Quirinale dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a Palazzo Chigi dalla premier Giorgia Meloni che gli ribadiranno l’appoggio e il sostegno dell’Italia.

A vedere le medievali alabarde delle Guardie Svizzere schierate al suo arrivo nel cortile di San Damaso, Zelensky probabilmente penserà che sta per avere la risposta alla arrogante domanda di Stalin che minacciava di far dilagare l’Armata Rossa in tutta Europa e chiese a chi lo ammoniva di non mettersi contro il Vaticano “ma quante divisioni ha il papa?”. A 80 anni di distanza Mosca ripete con Vladimir Putin lo schema del dittatore sovietico.

Papa Francesco misurerà le parole, ma non potrà mimetizzare la commozione e lo sdegno per le atrocità, le distruzioni, le deportazioni che i russi stanno infliggendo da quasi 500 giorni al popolo ucraino. La benedizione di Zelensky avrà un effetto globale che riscalderà i cuori e motiverà ulteriormente la resistenza dei milioni di cattolici e ortodossi dell’Europa orientale che hanno vissuto sulla loro pelle le persecuzioni sovietiche.

Dietro le quinte, la visita a Roma, dopo gli incontri al vertice del presidente dell’Ucraina libera a Parigi, Londra, Bruxelles, Amsterdam, Helsinki servirà per fare il punto sul contesto in rapida evoluzione del conflitto.

Le ultime mosse di Francia, Inghilterra, Turchia, Stati Uniti e Cina lasciano intravedere serrate trattative con Mosca, ma anche prospettive di business post bellico.

Parigi ha chiesto a Pechino di chiarire al Cremlino che Mosca é in una “impasse” nella sua guerra con l’Ucraina e che la via d’uscita é il negoziato. Un concetto analogo a quello espresso nell’ incontro a Vienna fra il consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ed il ministro degli Esteri cinese Wang Yi.

La sensazione prevalente è che le crescenti difficoltà militari ed economiche della Russia abbiano accelerato i piani della Cina e dell’Occidente per accaparrarsi i massicci interventi per la ricostruzione non soltanto dell’Ucraina, ma anche delle infrastrutture economiche russe stravolte dalle sanzioni e dagli effetti collaterali dell’isolamento e del distacco dal sistema produttivo e finanziario globale.

A Pechino non basta l’attuale sostanziale monopolio sull’apparato produttivo e infrastrutturale russo e punta a non farsi escludere dalla ricostruzione dell’Ucraina, la più imponente e capillare mai attuata dopo la seconda guerra mondiale. Un new deal per il quale é in gestazione un piano di interventi superiore al piano Marshall attuato dagli Stati Uniti nel dopoguerra per la ricostruzione dell’intera Europa. Mentre il Cremlino assiste impotente all’attivismo diplomatico ucraino, a Mosca é in corso una trasversale riflessione sul da farsi. Oltre a commentarsi da solo, lo spettacolo della parata del 9 maggio riflette gli equilibri del potere sul quale si regge il regime di Putin. Equilibri instabili, come dimostra il drone abbattuto o fatto esplodere sul Cremlino e del quale non sono mai stati mostrati i rottami. Equilibri sui quali incombono i contraccolpi di una controffensiva ucraina che con studiata regia Kiev sta dilatando in attesa di poter disporre del massimo degli armamenti ed in maniera da colpire in profondità l’armata russa.

L’intelligence ucraina è molto cauta, mentre gli analisti internazionali di strategie politico militari prevedono scenari che vanno dalla progressiva ritirata delle truppe di Mosca ad un regolamento dei conti al Cremlino con un cambio di regime oppure, l’improbabile eventualità che Putin riconosca il fallimento dell’invasione e pur rimanendo al potere ordini alle truppe di abbandonare l’Ucraina, esclusa la Crimea.
Scenari già verificatisi nella storia della Russia, nel 1905 e nel 1917 quando le disfatte militari del conflitto col Giappone e della prima guerra mondiale scatenarono rivolte e rivoluzioni. Il fattore decisivo della resa dei conti “é sempre la coscienza” sosteneva il filosofo e psicanalista Carl Gustav Jung, che si riferiva a quanti dispongono di una coscienza.

Nessuno si nasconde che se entro l’estate la controffensiva non sfonda, per l’Ucraina sarebbe molto difficile organizzarne un’altra. Questo spiega la prudenza e la ricerca del massimo del consenso internazionale di Zelensky.

Il backstage del D-day dell’attacco, o dell’aggiramento delle linee russe come appare più probabile, è fitto di interventi sotto traccia delle intelligence occidentali per assicurare la massima copertura alla controffensiva ucraina. Il più clamoroso e recente é quello della distruzione del malware Snake, serpente, utilizzato dalle cyber unità dei servizi segreti russi per colpire i sistemi informatici di almeno 50 Paesi per lo più della Nato. Il quartier generale delle spie informatiche é stato localizzato a Rjazan, una anonima città a 200 chilometri a Sud-Est di Mosca.

Allo scudo della cyber war si aggiunge il notevole potenziamento offerto dalla fornitura all’Ucraina da parte della Gran Bretagna dei sistemi missilistici a lungo raggio Storm Shadow, per i quali Londra ha però ottenuto da Kiev l’assicurazione che sarebbero stati utilizzati esclusivamente all’interno del territorio ucraino e non per colpire la Russia. Resta il fatto comunque che l’esercito ucraino dispone ora di una forte e inedita deterrenza.

Il vero fattore decisivo rimane il tempo, calcolato in sei mesi. All’inizio del 2024 iniziano le campagne elettorali per le presidenziali in Russia e negli Stati Uniti ed il rischio peggiore é che nulla avvenga né come si teme né come si spera.


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