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Vi racconto l’attualità del pensiero kissingeriano. Scrive Valori

In occasione dei cento anni di Henry Kissinger, Formiche dedica uno speciale all’ex segretario di Stato degli Stati Uniti d’America, raccogliendo contributi e riflessioni su una delle personalità più influenti del Novecento. Qui ospitiamo il contributo del professor Giancarlo Elia Valori

Non starò a parlare dei successi passati del mio amico Henry Kissinger, ma della sua visione sempre lungimirante sia ieri che specie oggi.

Per prima cosa desidero affermare che al compimento del centesimo anno di vita attiva e sempre in primissimo piano, Henry Kissinger mette in guardia l’amministrazione statunitense di non cercare una lotta all’ultimo sangue con la Repubblica Popolare della Cina, in quanto si potrebbe andare incontro ad un conflitto mondiale. Ed è bene ricordare che nel 1972, fu proprio Kissinger – allora consigliere per la sicurezza del presidente Richard Nixon – il segretario di Stato era William Rogers – ad avviare i negoziati con Mao Zedong e Zhou Enlai che condussero al disgelo fra la Città Proibita e la Casa Bianca, e alla fine della guerra in Vietnam con l’Accordo sulla fine della guerra e il ripristino della pace in Vietnam (27 gennaio 1973) e alla famosa caduta, e fuga degli elicotteri da Saigon, il 30 aprile 1975.

Kissinger non si è unicamente limitato ad ammonire l’amministrazione Biden, ma ha parlato anche dell’inconsistenza dell’Unione Europea, sia pure in termini edulcorati da maestro di diplomazia e politica estera. Esaminando le “performance” coloniali dei capi di Stato, e primi ministri europei di oggi – dal francese Emmanuel Macron, al tedesco Olaf Scholz, gli italiani non li ha nemmeno citati in quanto esistono solo come maschere della Commedia dell’Arte – Kissinger ha affermato che lo ha rattristato che l’attuale «leadership europea non abbia il senso dell’orientamento e della missione» che i precedenti capi di Stato, come Adenauer e de Gaulle – noi aggiungiamo Moro, Fanfani, Andreotti e Craxi – hanno portato ai loro ruoli.

È chiaro il riferimento alla guerra russo-ucraina, che – a nostro avviso – va visto in maniera oggettiva e senza dar spazio a retoriche e piagnistei di sorta. Dall’inizio del 2014, l’Ucraina – un Paese allora poco visibile – è diventata il fulcro di un dibattito limitato e nascosto. Nel febbraio 2014, è stato rovesciato il presidente Viktor Fedorovych Yanukovych – legittimamente eletto – mediante una rivolta anticostituzionale, e l’Europa ha taciuto. Successivamente, i disordini si sono sviluppati rapidamente e hanno raggiunto il culmine: in primo luogo, con l’intervento delle forze militari russe, la Crimea – regalata da Chruščëv per capriccio il 19 dicembre 1954 alla Repubblica Socialista Sovietica dell’Ucraina – aveva dichiarato l’indipendenza e si era unita alla Federazione Russa con un referendum. In Ucraina orientale ha preso il via un movimento separatista con l’obiettivo di recedere dal Paese, dove la minoranza russa, corrispondente al 17,3% della popolazione, è ritenuta di Serie B. Tutto questo ha portato allo scoppio della guerra civile che ha causato migliaia di morti russi, gettati nel silenzio dai media occidentali. Media occidentali che hanno osato adottare la parola Olocausto per le vittime ucraine nella guerra in corso, dimenticando i crimini di Bandera contro gli ebrei (cfr. Israeli ambassador ‘shocked’ at Ukraine’s honoring of Nazi collaborator, in “Time of Israel” del 15 dicembre 2018).

L’Ucraina era diventato un Paese fuori controllo: non solo la parte orientale era caduta in uno stato di guerre intermittenti, ma lo Stato aveva perso la capacità di controllare il proprio destino nella competizione tra le grandi potenze, ed era/è diventato carne da cannone nel gioco dei grandi poteri.

Dietro il conflitto in Ucraina non c’è solo il rapporto tra Kiev e la regione orientale, e l’escalation del conflitto tra Russia e Ucraina, ma anche la contesa tra Russia e Stati Uniti d’America. La guerra civile ucraina non è solo derivata dalle divisioni interne causate dalla politica del governo che ha rovesciato il presidente legittimamente eletto, ma è anche una guerra per procura tra Mosca e Washington, con quest’ultima che punta alla perdita di valore dell’euro rispetto al dollaro statunitense.

Come si nota bene la crisi ucraina ha diverse sfaccettature e interazioni globali che vanno oltre lo scenario improvvisato per media e luoghi comuni.

Non dimentichiamo che Kissinger era presente a Helsinki nel 1975 quando un’Europa ancora divisa ma saggia (e oggi invece unita solo dal danaro delle banche e dei banchieri) e un’Occidente acuto, con l’accordo di Mosca (Leonid Breznev) e Washington (Gerald Ford), hanno varato la Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa. Ed il Nostro nel suo nuovo libro, Leadership: Six Studies in World Strategy si concentra su sei leader chiave: il tedesco Konrad Adenauer, il francese Charles de Gaulle, Nixon, l’egiziano Anwar Sadat, il primo ministro britannico Margaret Thatcher e l’influente primo ministro di Singapore Lee Kuan Yew. Kissinger, alla domanda su come se la caverebbero i leader ritratti nel suo libro nel mondo di oggi, ha affermato che Lee di Singapore sarebbe il migliore dei sei a ricoprire la carica di presidente degli Stati Uniti d’America, se una cosa del genere fosse possibile.

Recentemente Kissinger ha pubblicato alcune riflessioni sull’andamento della politica mondiale degli ultimi decenni, con riferimenti al ritorno delle contrapposizioni del secolo breve riportate alla luce dagli sviluppi di armamenti nuovi e strategici di scenario, mediate dall’intelligenza artificiale. Ma non solo, Kissinger si è riferito alla situazione in Ucraina come abbiamo visto, ma pure agli equilibri fra Washington, Mosca e Pechino.

Afferma Kissinger che la comunicazione istantanea e la rivoluzione tecnologica si sono combinate per dare nuovo significato e urgenza a due questioni cruciali che i leader devono affrontare:

1) cosa è indispensabile per la sicurezza nazionale?

2) E cosa è necessario per una pacifica convivenza internazionale?

Sebbene sia esistita una pletora di imperi, le aspirazioni all’ordine mondiale erano confinate dalla geografia e dalla tecnologia a regioni specifiche; questo era vero anche per gli Imperi romano e cinese, che racchiudevano al loro interno una vasta gamma di società e culture. Questi erano ordini regionali che coevamente si presentavano come ordini mondiali.

A partire dal XVI secolo, lo sviluppo delle tecnologia, della medicina e dell’organizzazione economica e politica ha ampliato la capacità europea di proiettare il suo potere e i suoi sistemi di governo in tutto il mondo. Dalla metà del XVII secolo, il sistema vestfaliano si è basato sul rispetto per la sovranità e il diritto internazionale. Quel sistema, successivamente si è radicato in tutto il mondo e dopo la fine del colonialismo tradizionale, ha permesso la nascita di Stati che – abbandonati in gran parte formalmente dalle ex Madripatrie – hanno insistito per definire e anche sfidare, le regole dell’ordine mondiale stabilito; per lo meno quei Paesi che realmente si sono sbarazzati del dominio dell’imperialismo, quali la Repubblica Popolare della Cina, la Repubblica Popolare Democratica della Corea, ecc.

Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale l’umanità ha vissuto in un delicato equilibrio tra sicurezza relativa e legittimità. In nessun periodo precedente della storia le conseguenze di un errore in questo equilibrio sarebbero state più gravi o catastrofiche. L’età contemporanea ha introdotto un livello di distruttività che potenzialmente permette all’umanità di autodistruggersi. I sistemi avanzati  di reciproco annichilimento erano mirati a perseguire non la vittoria finale quanto prevenire l’attacco di altri.

Ed è per questo che non molto tempo dopo la tragedia atomica giapponese del 1945, lo schieramento di armi nucleari iniziò a diventare incalcolabile, slegandosi dalle conseguenze e basandosi sulla certezza dei sistemi di sicurezza.

Per settantasei anni (1946-2022) mentre le armi avanzate sono cresciute in potenza, complessità e precisione, però nessun Paese si è convinto a usarle effettivamente, anche in conflitto con Paesi non nucleari. Sia gli Stati Uniti d’America che l’Unione Sovietica che hanno accettato la sconfitta per mano di Paesi non nucleari senza ricorrere alle proprie armi più letali: come nel caso della guerra di Corea, Vietnam, Afghanistan (sia sovietici che statunitensi in tal caso).

Ad oggi tali dilemmi nucleari non sono scomparsi, ma sono invece cambiati man mano che più Stati hanno sviluppato armi più raffinate della “bomba atomica” e la distribuzione essenzialmente bipolare delle capacità distruttive della ex guerra fredda è stata sostituita da opzioni di altissima tecnologia: tema affrontato in miei diversi interventi su stampa e rete italiane.

Le armi informatiche e le applicazioni di intelligenza artificiale (come i sistemi d’arma autonomi) complicano notevolmente l’attuale pericolosa prospettiva bellica. A differenza delle armi nucleari, le armi informatiche e l’intelligenza artificiale sono onnipresenti, relativamente poco costose da sviluppare e facili da usare.

Le armi informatiche combinano la capacità di impatto massiccio con la possibilità di oscurare l’attribuzione degli attacchi: cosa fondamentale quando l’attaccante non è più un riferimento preciso ma diventa un “quiz”. L’intelligenza artificiale – come abbiamo sottolineato spesso – è in grado di superare anche la necessità di operatori umani, e consente alle armi di lanciarsi da sole in base ai propri calcoli e alla loro capacità di scegliere obiettivi con una precisione quasi assoluta.

Nessuna diplomazia è stata ancora inventata per minacciare l’uso dell’intelligenza artificiale in modo esplicito senza il rischio di una risposta anticipata. Al punto che i summit sul controllo degli armamenti sembrano essere stati sminuiti da queste novità incontrollabili, che vanno da attacchi di droni senza insegne a quelli informatici dal profondo della rete.

Attualmente gli sviluppi tecnologici sono accompagnati da una trasformazione politica. Oggi stiamo riassistendo al ritorno della rivalità tra le grandi potenze, amplificata dalla diffusione e dal progresso di tecnologie sorprendenti. Quando nei primi anni Settanta la Repubblica Popolare della Cina ha intrapreso il suo rientro nel sistema internazionale diplomatico su iniziativa di Zhou Enlai e alla fine di quel decennio il pieno rientro nello scenario internazionale grazie a Deng Xiaoping, il suo potenziale umano ed economico era vasto, ma la sua tecnologia e il suo potere effettivo erano relativamente limitati.

Le crescenti capacità economiche e strategiche di Pechino hanno nel frattempo obbligato gli Stati Uniti d’America a misurarsi per la prima volta nella loro storia con un concorrente geopolitico le cui risorse sono potenzialmente paragonabili alle proprie.

Afferma Kissinger che ciascuna parte si considera un unicum, ma in modo diverso. Gli Stati Uniti d’America agiscono sulla base del presupposto che i loro valori siano applicabili universalmente e alla fine saranno adottati ovunque. La RP della Cina invece si aspetta che la sua unicità della propria ultramillenaria civiltà e l’impressionante balzo in avanti economico ispireranno altri Paesi ad emularla per affrancarsi dal dominio imperialista e a mostrare rispetto per le priorità cinesi.

Sia l’impulso missionario da “destino manifesto” degli Stati Uniti d’America che il senso di grandezza ed eminenza culturale della RP della Cina – della Cina in quanto tale in sé lungo la Storia – implicano una sorta di subordinazione-timore l’uno dell’altro. Per la natura delle loro economie e dell’alta tecnologia, ciascun Paese sta incidendo su ciò che l’altra ha finora considerato propri interessi fondamentali.

La RP della Cina nel XXI secolo sembra essersi imbarcata in un ruolo internazionale al quale si ritiene autorizzata dai suoi successi nel corso dei millenni. Gli Stati Uniti d’America, invece, stanno agendo per proiettare potere, scopo e diplomazia in tutto il mondo per mantenere un equilibrio globale stabilito nella sua esperienza postbellica, rispondendo a sfide tangibili e immaginarie di questo ordine mondiale.

La questione chiave per l’esistenza del pianeta è se i due colossi possano imparare a combinare l’inevitabile rivalità strategica con un concetto e una pratica di coesistenza.

Per quanto riguarda la Russia, essa manca del potere di mercato, del peso demografico e della base industriale diversificata, come invece negli Stati Uniti d’America e nella RP della Cina.

Attraversando undici fusi orari e godendo di poche demarcazioni difensive naturali, la Russia ha agito secondo i propri imperativi geografici e storici. La politica estera della Russia rappresenta un patriottismo mistico in un diritto imperiale da Terza Roma, con una persistente percezione di insicurezza derivata essenzialmente dalla vulnerabilità di lunga data del Paese all’invasione attraverso le pianure dell’Europa orientale.

Per secoli, i suoi capi da Pietro il Grande a Stalin – che del resto non era nemmeno russo, ma si sentiva tale nello spirito internazionalista che ha creato l’URSS il 30 dicembre 1922 – hanno cercato di isolare il vasto territorio della Russia con una cintura di sicurezza imposta attorno al suo confine diffuso; Kissinger ci dice oggi la stessa priorità si manifesta ancora una volta nell’attacco all’Ucraina, e noi aggiungiamo che pochi lo capiscono e tanti fingono di non intenderlo.

L’impatto reciproco di queste società è stato plasmato dalle loro valutazioni strategiche, che derivano dalle loro storie. Il conflitto ucraino lo illustra. Dopo la disintegrazione del Patto di Varsavia, e la trasformazione degli Stati membri (Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania Democratica, Polonia, Romania, Ungheria) in Paesi “occidentali”, l’intero territorio dalla linea di sicurezza stabilita nell’Europa centrale fino al confine nazionale della Russia si è aperto a un nuovo disegno strategico. La stabilità dipendeva dal fatto che il Patto di Varsavia in sé – specie dopo la predetta Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa di Helsinki (1975) – placava i timori europei storici della dominazione russa (allora sovietica), e tranquillizzava la tradizionale preoccupazione russa per le offensive dall’Occidente: dagli Svedesi, a Napoleone sino ad Hitler. Per cui la geografia strategica dell’Ucraina incarna queste preoccupazioni che tornano a Mosca. Se l’Ucraina dovesse aderire alla Nato, la linea di sicurezza tra la Russia e l’“occidente statunitensizzato” verrebbe posta entro poco più di 500 chilometri da Mosca, eliminando di fatto lo storico cuscinetto che ha salvato la Russia quando Svezia, Francia e Germania hanno cercato di occuparla nei secoli precedenti.

Se il confine di sicurezza dovesse essere stabilito sul lato occidentale dell’Ucraina, le forze russe sarebbero a breve distanza da Budapest e Varsavia. L’invasione dell’Ucraina del febbraio 2022, è una flagrante violazione del diritto internazionale di cui dicevamo sopra, ed è quindi in gran parte una conseguenza di un dialogo strategico fallito o altrimenti intrapreso in modo inadeguato. L’esperienza di due entità nucleari che si fronteggiano militarmente – pur non ricorrendo alle loro armi distruttive – sottolinea l’urgenza del problema fondamentale, poiché l’Ucraina è solo uno strumento dell’Occidente. Una volta l’italiano Premio Nobel, Dario Fo disse che la Rp della Cina era un’invenzione dell’Albania per far paura all’Unione Sovietica: noi affermiamo che attualmente l’Ucraina è un’invenzione dell’Occidente per far paura alla Russia: e non è una battuta. Un’invenzione che ucraini e russi stanno pagando col loro sangue.

Per cui la relazione triangolare tra Stati Uniti d’America, Repubblica Popolare della Cina e Federazione Russa alla fine riprenderà, anche se la Russia sarà indebolita dalla dimostrazione dei suoi voluti limiti militari in Ucraina, dal diffuso rifiuto della sua condotta e dalla portata e dall’impatto delle sanzioni contro di essa. Ma manterrà le capacità nucleari e informatiche per scenari apocalittici.

Kissinger ci dice che nelle relazioni Stati Uniti d’America-Rp della Cina, invece l’enigma è se due diversi concetti di grandezza nazionale possano imparare a coesistere pacificamente fianco a fianco e come. Con la Russia, la sfida è se quel Paese possa conciliare la sua visione di se stesso con l’autodeterminazione e la sicurezza dei Paesi in quello che ha a lungo definito il suo vicino estero (principalmente in Asia centrale ed Europa orientale), e farlo come parte di un sistema internazionale piuttosto che attraverso il dominio.

Sembra ora possibile che un ordine basato su regole universali, per quanto meritevole nella sua concezione, sarà sostituito in pratica per un periodo di tempo indeterminato da un mondo almeno parzialmente disaccoppiato. Una tale divisione incoraggia una ricerca ai suoi margini di sfere di influenza. In tal caso, in che modo i Paesi che non sono d’accordo sulle regole di condotta globale saranno in grado di operare all’interno di un disegno di equilibrio concordato? La ricerca del dominio travolgerà l’analisi della convivenza?

In un mondo di tecnologia sempre più formidabile che può elevare o smantellare la civiltà umana, alla competizione tra grandi potenze non esiste una soluzione definitiva, per non parlare di quella militare. Una sfrenata corsa tecnologica, giustificata dall’ideologia della politica estera in cui ciascuna delle parti è convinta dell’intento malevolo dell’altra, rischia di creare un ciclo catastrofico di sospetto reciproco come quello che ha dato inizio alla Prima Guerra Mondiale, ma con conseguenze incomparabilmente maggiori.

Tutte le parti sono quindi ora obbligate a riesaminare i loro primi principi di comportamento internazionale e metterli in relazione con le possibilità di coesistenza. Per i capi delle società ad alto livello tecnologico, c’è un imperativo morale e strategico di portare avanti – sia all’interno dei propri Paesi, sia con potenziali Paesi avversari – una discussione permanente sulle implicazioni della tecnologia e su come le sue applicazioni militari potrebbero essere limitate.

L’argomento è troppo importante per essere trascurato finché non sorgono crisi. I dialoghi sul controllo degli armamenti che hanno contribuito a moderare i termini durante l’era nucleare; le ricerche ad alto livello sulle conseguenze delle tecnologie emergenti, potrebbero indurre la riflessione e promuovere abitudini di reciproco autocontrollo strategico.

Un’ironia del mondo contemporaneo è che una delle sue glorie – l’esplosione rivoluzionaria della tecnologia è emersa così rapidamente, e con un tale ottimismo, che ha superato il limite dei suoi pericoli, e sono stati compiuti sforzi sistematici inadeguati per comprenderne le capacità.

I tecnologi sviluppano dispositivi sorprendenti, ma hanno avuto poche occasioni di esplorare e valutare le loro implicazioni comparative all’interno di una cornice storica. I capi politici troppo spesso mancano di un’adeguata comprensione delle implicazioni strategiche e filosofiche delle macchine e degli algoritmi a loro disposizione, come ho sottolineato in un precedente articolo. Allo stesso tempo, la rivoluzione tecnologica sta intaccando la coscienza umana e le percezioni della natura della realtà.

L’ultima grande trasformazione – l’Illuminismo – ha sostituito l’età della fede con esperimenti ripetibili e deduzioni logiche. Ora viene soppiantato dalla dipendenza dagli algoritmi, che lavorano nella direzione opposta, offrendo risultati alla ricerca di una spiegazione. Esplorare queste nuove frontiere richiederà uno sforzo considerevole da parte delle dirigenze nazionali per ridurre, e idealmente colmare, i divari esistenti tra i mondi della tecnologia, della politica, della storia e della filosofia.

Non è necessario che i capi delle grandi potenze contemporanee sviluppino immediatamente una visione dettagliata di come risolvere i dilemmi qui descritti. Kissinger ammonisce che essi devono, tuttavia, essere chiari su ciò che deve essere evitato e ciò che non può essere tollerato. Chi è saggio deve anticipare le sfide prima che si manifestino come crisi. Mancando una visione morale e strategica, l’epoca attuale è senza freni. La vastità del nostro futuro sfida ancora la comprensione non tanto di ciò che succederà ma di quello che è già accaduto.

Henry, parla! E noi ti ascolteremo sempre.



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