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Microchip, tutti i numeri del mercato (e i trend del futuro)

La Semiconductor Industry Association (Sia) ha diffuso i dati che fotografano l’industria globale (e americana) dei chip nel corso del 2022. Nonostante un rallentamento relativo, il mercato dei chip continua a seguire i fondamentali storici: intensità di capitale e R&D rispetto alle vendite e innovazione. Un’industria chiave per la leadership tecnologica degli Stati Uniti, in un contesto geopolitico in mutamento…

Le vendite globali di semiconduttori sono destinate a toccare i $602 miliardi di dollari nel 2024, secondo le stime della Semiconductor Industry Association (Sia), la potente lobby americana, che ha ripreso i dati della World Semiconductor Trade Statistics (WSTS). I dati diffusi dalla Sia fotografano, tuttavia, un 2022 caratterizzato da significative fluttuazioni del mercato, colpito dallo spettro recessivo, dall’inflazione e dai riverberi della ‘guerra’ tecnologica tra Usa e Cina.

Nell’annuale Factbook, la Sia ha aggiornato il trend storico dell’industria a partire dall’inizio del millennio, inserendo gli indicatori chiave tra cui vendite, percentuale di spesa in R&D, la struttura del mercato e le prospettive per lavoro e produttività.

Nel 2022 le vendite di chip sono state caratterizzate da una frenata, dovuta soprattutto al calo della domanda nella seconda parte dell’anno, fermandosi a 574 miliardi di dollari. Le aziende americane attive nel mercato hanno contato per circa il 48% dello share, totalizzando 275 miliardi di vendite (dai 71 circa del 2001, una crescita annuale del 6.7%). Il report sottolinea inoltre che per mantenere la competitività e la leadership tecnologica le aziende Usa hanno speso una cifra record in R&D, ovvero 58.8 miliardi di dollari.

Le compagnie americane, che oggi dominano particolari segmenti della catena del valore – tra cui design, Eda e Sme (semiconductor manufacturing equipment) – sono infatti quelle che spendono di più, in rapporto alle vendite, per mantenersi competitive e alla frontiera tecnologica. Interessante il dato che mostra, in termini di vendite, come le aziende con HQ negli Usa contino per il 53.4% dello share nel mercato cinese, per il 47.9% nell’Asia Pacifico, per il 50% nel mercato europeo e per il 42.8% in quello giapponese. Dati che dimostrano quanto il decoupling dalla Cina sia un percorso tortuoso e non semplice, soprattutto per quelle aziende il cui business ruota intorno ai produttori domestici cinesi.

Le aziende americane, infatti, specialmente quelle fabless guardano con scetticismo la prospettiva che Washington possa mettere un freno agli investimenti privati americani in Cina allo scopo di frenare l’ascesa tecnologica di Pechino, specialmente in quei segmenti dove il gap con gli Stati Uniti rimane ampio (microprocessori per l’IA e il supercalcolo). Vi è poi lo scontro su come le aziende americane potranno beneficiare, o meno, dei sussidi del CHIPS Act qualora venissero implementate restrizioni per quelle aziende operative in Cina. La Segretaria al Commercio Gina Raimondo aveva infatti avvertito che gli incentivi pubblici previsti dalla misura sarebbero stati vietati, per ragioni di sicurezza nazionale, per la costruzione di impianti produttivi e cutting edge localizzati in Cina per un periodo di 10 anni.

Nonostante le restrizioni in vigore per equipaggiamenti e software ad alto contenuto tecnologico verso la Repubblica Popolare Cinese (che rimane il principale mercato mondiale per l’industria dei chip, con il 55% del mercato regionale e il 31% di quello globale), resta il fatto che i semiconduttori rimangono un driver di fondamentale importanza anche alla voce esportazioni per gli Usa nel 2022, al quinto posto per valore dietro a petrolio grezzo e raffinato, gas naturale e aeromobili, per un totale di 61.1 miliardi di dollari e contando per la maggior parte dell’export alla voce elettronica.

Da un punto di vista globale, secondo una ricerca di Deutsche Bank pubblicata nel dicembre 2022, dal 2020 i semiconduttori sono diventati il principale prodotto scambiato su scala planetaria se misurati in valore: più di 2.5 trilioni di dollari, davanti a computer e petrolio raffinato. Un risultato che conferma la pervasività dei chip nell’economia mondiale, trainata sempre di più da digitalizzazione, elettrificazione e automazione. L’industria dei chip mondiale, infatti, ha registrato un +3.3% nel 2022 nonostante il contesto macroeconomico e geopolitico incerto.

La maggior parte della domanda è stata guidata dall’elettronica di consumo, come smartphone e tablet (in particolare per i chip logici e di memoria) con il 30%, seguita da PC e computer (26%) e con un importante 14% del settore automotive. La transizione dai veicoli a combustione interna verso l’elettrico (EV) rappresenta un nuovo e fondamentale driver per l’industria, che sta portando diversi chipmalers – tra cui TSMC, leader globale del mercato foundry – a riconfigurare investimenti e capacità produttive per servire questo mercato in ascesa. I chip analogici e microcontrollori, insieme ai due precedenti, rappresentano nel complesso il 78% delle vendite complessive dell’industria seppur i primi due siano, per ragioni tecniche, tradizionalmente richiesti dal settore industriale (14% della domanda).

Rimane confinato, seppur di peso, il settore pubblico che include quello militare, con il 2% a conferma che la traiettoria del settore in termini di crescita e innovazione tecnologica continuerà ad essere trainata dai settori civili, seppur alcuni dual-use, come AI, 5G e quantum computing. E’ qui che emerge la faglia tra economia di mercato e sicurezza, dal momento che l’attuale contesto geopolitico (USA-Cina) rende particolarmente rilevante lo sviluppo e l’utilizzo di chip a scopi bellici come clausola di interesse nazionale.

Vi è poi l’importante questione del capitale, degli investimenti in R&D che hanno plasmato gli ultimi vent’anni e biforcato il mercato statunitense (a prevalenza di aziende fabless, con le prime 5 aziende che totalizzano una capitalizzazione di borsa vicina ai 3 trilioni di dollari e 345 miliardi di vendite nel 2021) da quello asiatico (Taiwan e Corea del Sud) con il 75% della capacità manifatturiera globale (foundry) e il 100% di quella sotto i 10 nanometri (leading edge). La Sia infatti afferma che per mantenere i rispettivi vantaggi competitivi in questi due segmenti (ma anche in quelli dei macchinari, dei prodotti chimici per la fabbricazione e la fornitura di wafer di silicio) le aziende devono continuamente investire le entrate in R&D (i chipmakers americani investono più di tutti, circa il 18%, dietro soltanto all’industria farmaceutica e biotech), asset ed equipaggiamento. Una spinta che viene dall’emergere di nuove tecnologie a valle, con sempre più complessi processi produttivi, di design per stare al passo della legge di Moore.

Questa capacità, secondo la Sia, difficilmente potrà scendere nuovamente sotto la soglia del 30% (ovvero la percentuale delle vendite reinvestite in spesa per conto di capitale e innovazione) considerati i trend del settore. Dal 2001, anno di massimo, il tasso è ritornato a quota 35% dopo anni di fluttuazioni. E’ chiaro che le tensioni geopolitiche e la frammentazione del settore per ragioni di sicurezza delle forniture e spinta dei governi (politiche industriali) potrebbero offuscare le proiezioni dell’industria. Ne è un esempio il trend di sussidi, all’interno di una più ampia strategia industriale e commerciale, messi in atto da Pechino per far emergere campioni nazionali in più segmenti della supply chain, seppur a risultati altalenanti: secondo i dati raccolti da South China Morning Post, la Cina ha sussidiato la sua industria per oltre 1.75 miliardi di dollari nel solo 2022, con SMIC (azienda foundry e inclusa nell’Entity List del Dipartimento del Commercio Usa nel 2020) principale beneficiaria.

Per assicurare la continuità dell’egemonia tecnologica Usa in questo settore strategico, la Sia raccomanda 4 linee d’azione: implementare con saggezza politiche e iniziative (tra cui il CHIPS Act) a supporto dell’intero ecosistema; migliorare il sistema educativo STEM per assicurarsi talenti e forza lavoro qualificata; promuovere il libero mercato e la protezione della proprietà intellettuale; cooperare con gli alleati per la resilienza delle supply chain.

Direttive che comunque devono confrontarsi con un panorama sempre più caratterizzato da politiche industriali, protezionismi tecnologici e competizione su talento, know-how e materiali che sembrano, ormai, aver terremotato quel “consensus” su cui si è costruita la globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta. E grazie alla quale l’industria dei semiconduttori ha beneficiato per lungo tempo.



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