Il ritorno all’equilibrio di bilancio e alla riduzione del macigno del debito pubblico non sono rinviabili sine die, non tanto perché richiesti dal Patto di Stabilità, quanto per la vulnerabilità della crescita economica. Resta poco spazio per l’assistenzialismo che non genera né crescita economica, né sviluppo di una società attiva. Maggiore assistenzialismo in futuro non è possibile se non sottraendo risorse a impieghi più produttivi per lo sviluppo futuro
Gli ultimi dati sull’andamento del mercato del lavoro, diffusi dall’Istat da poco, testimoniano un continuo miglioramento della situazione occupazionale pur sullo sfondo di un afflosciamento della crescita economica, dopo la vivace ripresa dell’ultimo biennio. A marzo scorso l’occupazione continuava ad aumentare nel confronto rispetto sia al mese precedente che al trimestre corrispondente del 2022, superando nettamente il picco registrato da ultimo a fine 2018. Il tasso di occupazione raggiungeva il record degli ultimi venti anni, al 60,9%, e la percentuale di inattivi si riduceva lievemente, restando ancora troppo elevata. Scende pure il tasso di disoccupazione, al 7,8%, interessando anche la fascia dei giovani, in cui incide maggiormente (al 22,8%).
Diversi fattori possono addursi ad origine di questi miglioramenti. Benché in ritardo rispetto alla ripresa del manifatturiero, il terziario, fortemente penalizzato dal lockdown, ha realizzato un forte rimbalzo, le esportazioni hanno continuato a espandersi, nuovi provvedimenti governativi mantengono l’impulso alla occupazione anche dopo la pandemia, e le opere del Pnrr entrano nella fase attuativa. Malgrado i progressi, si è lungi dal portare a soluzione i problemi occupazionali del mercato del lavoro, problemi che appaiono evidenti nel confronto con il resto dell’Ue. Rispetto alla media europea, la partecipazione al mercato del lavoro è troppo bassa, la quota degli inattivi troppo alta, la disoccupazione particolarmente concentrata tra le donne e i giovani, il lavoro in nero elevato, il cuneo fiscale fra i più alti, e l’uscita dal mondo del lavoro a un’età relativamente bassa. Pesa, inoltre, una prospettiva di espansione economica modesta per il prossimo triennio, con una proiezione del Pil attorno all’1% annuo fino al 2026 sia nello scenario tendenziale, sia in quello programmatico.
Si depreca, altresì, che i livelli retributivi siano inferiori a quelli delle maggiori economie, ma si dimentica che la produttività del lavoro e di sistema è più bassa e gli investimenti in ricerca ed innovazione sono modesti. La temporaneità di tanti rapporti di lavoro, definita precarietà, è anche un tratto contro cui tuonano le organizzazioni dei lavoratori nella criticabile logica di mirare a congelare i posti di lavoro piuttosto che tutelare il lavoratore nell’itinerario di riallocazione dettato dalla trasformazione economica in atto. Intanto, la percentuale di posti di lavoro rimasti vacanti si attesta su livelli elevati sia nelle imprese che richiedono nuove competenze, sia in quelle tradizionali, come la ristorazione e l’alloggio. Al tempo stesso incalza il declino demografico, con una popolazione da anni in contrazione ed invecchiamento, solo in parte bilanciata dall’avanzata degli immigrati, che in buona parte trovano opportunità di lavoro, a differenza degli italiani.
In questo contesto vanno inquadrati gli ultimi provvedimenti varati dal governo, che hanno provocato immediatamente le critiche, oltre che delle opposizioni, di alcuni accademici sempre impegnati dal lato del sociale e privi di una visione di insieme. Le misure adottate riformano il Reddito di cittadinanza (RdC) ed operano una limitata decurtazione del cuneo fiscale sulle retribuzioni, costituendo due tasselli di una politica più ampia, che comprende il potenziamento delle politiche attive per il mercato del lavoro attraverso il programma Gol, il piano per le nuove competenze, i nuovi investimenti nel Sistema duale, il contrasto al lavoro sommerso e le esenzioni contributive per favorire l’assunzione di alcune categorie svantaggiate. Non si possono, pertanto, valutare singole misure senza tener conto dell’insieme delle altre in programma che fanno da sinergie nell’affrontare i nodi principali del mercato del lavoro.
Già nel Def si indicano alcune stime di impatto delle misure programmate. Si ritiene, in particolare, che conducano a un incremento della partecipazione alle forze di lavoro e di riflesso permettano di ottenere un rialzo della crescita del Pil rispetto alla linea di tendenza di 1,5 punti percentuali nel 2026, rialzo che salirebbe a 2,4 punti nel 2030 e a 3,5 punti nel lungo periodo. Sono stime che presuppongono un contesto economico favorevole su scala europea ed una puntuale ed efficace attuazione delle misure, variabili soggette a incertezze.
Come era prevedibile, il Reddito di cittadinanza a tre anni dalla sua introduzione si è rivelato, oltre che strumento per raccogliere facili consensi popolari, una misura poco rispondente agli obiettivi assunti e molto costosa per il bilancio pubblico. Non è riuscito a raggiungere la maggioranza di quanti versano in effettiva povertà, né ha funzionato come avvio al lavoro per gli occupabili, perché solo il 20% ha trovato qualche occupazione. Al tempo stesso ha richiesto in tre anni una spesa a carico del bilancio pubblico di circa 20 miliardi. Data la condizione precaria della finanza pubblica, era inevitabile modificarne l’assetto per distinguere gli interventi per le due finalità e ridimensionarne la portata, in specie focalizzandoli su quanti effettivamente hanno bisogno di un supporto per uscire dalla povertà e avviarsi al lavoro.
In questa ottica il Reddito di cittadinanza viene sostituito dall’Assegno di inclusione (Adi), che mira al contrasto della povertà, e dallo Strumento di attivazione al lavoro (Sda). Con il primo l’aiuto è limitato a famiglie con minori, o anziani con più di 60 anni, o disabili. Si obietta che non è più uno strumento a carattere generale contro l’indigenza, come esiste in altri Paesi europei, e inoltre non se ne ha diritto se non ricorrono quelle condizioni. Sono obiezioni con poca consistenza, in quanto il confronto con i sistemi di altri Paesi non può restringersi a una sola misura, ma deve includere tutte le forme di assistenza e tener conto del livello di prosperità del Paese nel suo insieme. Nel nostro Paese sono previsti altri aiuti anche su base comunale per l’alloggio, le utilities e l’alimentazione, oltre all’accesso alla sanità ed istruzione gratuiti, e sul piano nazionale il nostro reddito pro-capite non è così elevato come in Francia e Germania, o i Paesi nordici, che possono permettersi di largheggiare.
Appare altresì appropriato statuire che si perda il beneficio se in famiglia gli occupabili non si rivolgono a un centro per l’impiego per la ricerca di un’occupazione o rifiutino un’offerta di lavoro anche se temporanea entro certe distanze dalla residenza. Non è infatti condonabile che molti chiedano il supporto dello Stato perché non sono disposti a impegnarsi in certe attività lavorative che attenuerebbero la loro indigenza, pretendendo un impiego sotto casa a tempo indeterminato e con una retribuzione non di sussistenza. Per evitare, tuttavia, situazioni di lavoratori che pur lavorando non riescono ad uscire dalla povertà, lo Stato dovrebbe erogare un’integrazione al reddito per affrancarli dalla soglia di povertà, come avviene in qualche Paese.
Uno degli obiettivi è anche ridurre la platea degli opportunisti dell’assistenza, ovvero quanti preferiscono avvalersi del loro stato di indigenza per ottenere un minimo reddito ed altri aiuti pubblici che alla fine cadono sulle spalle dei lavoratori contribuenti. In ogni intervento di assistenza per il contrasto alla povertà è, quindi, consigliabile mantenere sempre uno sprone al lavoro come mezzo di equità sociale e di freno al declino sociale. In questa ottica si colloca l’altro strumento, l’Sda, che è uno stimolo a inserirsi in un percorso di attiva ricerca di un lavoro anche attraverso attività di formazione. L’esiguità dell’importo e la sua durata ridotta dimostrano che non si tratta di un sostegno al reddito, ma di un incentivo per i disagiati ad attivarsi per trovare un’occupazione retribuita, avvalendosi anche dei centri per l’impiego.
La riduzione del cuneo fiscale mediante un limitato e temporaneo sgravio contributivo risponde all’esigenza di migliorare i redditi più bassi dei lavoratori, ovvero nella fascia fino a 35 mila euro, in una fase di elevata inflazione, senza alcuna riduzione di costo del lavoro per le imprese. Può intendersi, pertanto, come una misura per la coesione sociale, che restringe le disparità tra lavoratori e possibilmente, serve a moderare le richieste salariali in una fase in cui si avanzano richieste di recupero del potere di acquisto eroso dal perdurare di un’elevata inflazione. Invero, nell’ultimo biennio non si sono registrate impennate del costo del lavoro malgrado la fiammata dei prezzi e dei costi energetici ed alimentari. Se la moderazione salariale ha finora giovato alla competitività, non è plausibile che duri a lungo, perché le rivendicazioni salariali si faranno sentire ai rinnovi contrattuali. Contare, peraltro, su nuovi tagli del cuneo fiscale o delle imposte sui redditi da lavoro nei prossimi anni sembra attualmente poco realistico in quanto implica costi elevati per il bilancio pubblico. Per l’ultima riduzione di quattro punti del cuneo si sono dovute trovare risorse per oltre 4 miliardi e la sua prosecuzione nel 2024 ne richiederebbe circa 10.
Le altre misure adottate di recente sono rivolte a stimolare l’occupazione e la domanda di lavoro delle imprese, ma con un carattere selettivo e non generalizzato. Sono previsti sgravi per le assunzioni di giovani, di beneficiari dell’Adi, per l’apprendistato e un aumento del limite dei voucher per alcune categorie di prestazioni. Nella prospettiva più ampia di rendere meno rigido il mercato del lavoro si sono introdotti snodi di flessibilità nella disciplina dei contratti a termine, pur mantenendo le tutele dei contratti collettivi ed aziendali.
Minori rigidità sono necessarie nella fase in corso di grande trasformazione tecnologica e industriale per assecondare un’efficiente riallocazione delle forze di lavoro verso le nuove domande di competenze delle imprese, che sia pur sempre accompagnata da tutele dei redditi durante l’ardua transizione. La rigidità dell’occupazione è servita durante la pandemia per tamponare le disastrose conseguenze di una situazione eccezionale, ma si è entrati in una nuova fase di aggiustamenti in cui bisogna facilitare i processi di rinnovamento del sistema produttivo, superando le molte rigidità e contando sulla finanza pubblica meno che nel recente passato.
Il ritorno all’equilibrio di bilancio e alla riduzione del macigno del debito pubblico non sono rinviabili sine die, non tanto perché richiesti dal Patto di Stabilità, quanto per la vulnerabilità della crescita economica all’instabile atteggiamento dei mercati finanziari e alle deboli prospettive della congiuntura interna ed europea nei prossimi anni. Resta poco spazio per l’assistenzialismo che non genera né crescita economica, né sviluppo di una società attiva. Maggiore assistenzialismo in futuro non è possibile se non sottraendo risorse a impieghi più produttivi per lo sviluppo futuro. Occorre frenare queste tendenze, ma il populismo delle facili elargizioni ai supposti bisognosi a spese di un bilancio in deficit è sempre dietro l’angolo e pronto a riapparire a ogni tornata elettorale. Contrastarlo con misure intelligenti e selettive di sostegno, dove necessario, significa investire maggiori risorse per il benessere futuro.