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Napoli, la festa dell’appartenenza. La riflessione di Malgieri

Napoli appartiene alla categoria del divertimento ponderato, dell’attaccamento alla maglia, della “religione” dell’appartenenza. E perciò vince. E quando non vince non se la prende con nessuno perché conosce i disegno degli dèi del calcio. Ieri i loro occhi si sono posati su quella squadra di orgogliosi ragazzi che ci fanno ridere e ci commuovono

È un sentimento popolare, collettivo che ha vinto lo scudetto. Non si spiegherebbe in altro modo la frenesia di una città, di una regione, dei molti che vivono lontano da Napoli e sono legati ai colori azzurri davanti alla conquista per la terza volta del campionato di una squadra che per un anno ha fatto sognare centinaia di migliaia di tifosi, appassionati, sportivi i quali, a diverso titolo, sono stati attratti da quel dream team guidato da Luciani Spalletti. E, per chi conosce Napoli, non desta meraviglia la lunga notte, e le notti che verranno, fino alla fine del torneo, all’insegna di un’euforia pagana che celebra i trionfi come li si celebrava nelle vicine Capua, Pompei ed Ercolano duemila anni fa. Orgiasticamente, si potrebbe dire. Ma non perché i napoletani, residenti o forestieri, si siano dati a un altro credo. Gli altarini davanti ai murales che immortalano Diego Armando Maradona, i fuochi a mare e l’euforia di un popolo che da trentatré anni attendeva di vincere lo scudetto non è soltanto la celebrazione di Eupalla, come Gianni Brera definiva il gioco del calcio, ma il fastoso ritrovarsi di una comunità unita dal football in un intrico di appartenenze dalle motivazioni più varie.

Perciò dominare un campionato e appuntarsi lo scudetto sulla maglia non ha lo stesso sapore a Napoli che può avere in qualsiasi altra città, soprattutto del Nord, dove da un secolo ci si fregia del titolo: è normale a Milano e Torino, soprattutto, meno normale è perdere il primato per le corazzate del calcio; non è per nulla scontato invece strapparlo ai contendenti e portarselo a Napoli. Dove il calcio è passione vera e pulita, è divertimento puro, è assoluto richiamo al mito del primato, forse inconsciamente, soprattutto nei vicoli e nelle aree più disagiate della città, per chi ha poco o niente, oltre che per i ceti più abbienti naturalmente che certo non difettano di passione calcistica.

L’appartenenza a un mondo che è di tutti, ricchi e poveri, senza distinzioni e divisioni (a Napoli non nascerà mai un altro club) è la cifra che contraddistingue il “napoletanismo” solidale da quello di altre compagini e si fa etnia allegra, giocosa, appassionata come accade nei piccoli e grandi aggregati “pallonari” sudamericani.

Si dice che chi non ha niente (e non è vero per Napoli) si consola almeno con quello che è gratuito. La verità è che la città è ricca di tante cose che stanno insieme ad altre che non vanno e tanto per non fare sociologia a buon mercato, almeno in questa occasione non le citeremo.

Comunque la squadra è indubbiamente stata costruita con ingenti, ma oculati esborsi di denaro, però non al punto di mettere in precario equilibrio lo stato economico della società. Dobbiamo dire che a differenza di altri club Napoli sa spendere. Chi alla logica del risparmio, pescando qualità in ogni angolo del mondo, ha dedicato la costruzione del nuovo Napoli può fregiarsi di un orgoglioso scudetto “economico”, per così dire, perché portare al “Maradona” calciatori come Victor Osimhen dalla Nigeria, Khvicha Karavatskhelia dalla Georgia, Kim Min-Jae dalla Corea, Stanislav Lobotka dalla Slovacchia non è stato un miracolo, ma un prodigio della pratica e competenza calcistica che ha guidato la dirigenza del Napoli la quale con relativi pochi soldi (a fronte di cifre stratosferiche che avvelenano il football), ha costruito una squadra che ha incanto l’Europa in quest’ultima stagione.

E non è finita. Soprattutto se continua su questa strada. Spendere il giusto, valorizzare i migliori, mettere in condizione di subentrare le cosiddette riserve come se fossero titolari, lottare per ogni competizione senza sentirsi assoggettate a nessuno. È così che il “mito” richiamato dell’appartenenza prende forma nei cuori dei tifosi e dà ragione a chi disprezza il calcio miliardario che fattura molto, ma di risultati ne ottiene pochi. Nel 2009 il Napoli era in serie C. In quattordici anni è nell’Olimpo del calcio. E nessuno può disconoscere che il percorso è stato lungo e travolgente.

Anche agli inizi di questa stagione che si avvia al termine (ed i Napoli ha vinto con ben cinque giornate di anticipo: un record), giornalisti e sedicenti esperti spocchiosi, ritenevano che De Laurentiis avesse allestito una squadra mediocre, da sparagnino quale si dice che sia, ma non è vero. No, insieme con Giuntoli, il direttore sportivo, e Spalletti l’allenatore-artefice del miracolo Napoli, ha messo su una grande squadra che non ha mai giocato “sporco”, ma con eleganza, sapienza, abnegazione ha fatto divertire le platee continentali alle quali ha regalato gioia calcistica e simpatia. Dando ragione a chi ha avuto una visione del football molto diversa da squadre che hanno a che fare con le carte bollate e la giustizia sportiva.

Alla fine del secolo scorso Vladimir Dimitrijevic, nel suggestivo La vita è un pallone rotondo, scriveva: “I calciatori valgono dieci, venti, cento miliardi, c’è un’inflazione che tende all’astrazione. Pochi affari sono più redditizi del calcio. I finanzieri, i procuratori, gli intermediari mica si occupano di calcio solo per passione, perché il calcio ha assunto una tale importanza mediatica che le imprese ne hanno fatto un volano pubblicitario strategico. È meglio di uno spot televisivo! Si gioca quindi per giustificare gli investimenti delle grandi multinazionali”.

Oggi aggiungeremmo le ambizioni degli oligarchi russi e degli sceicchi arabi, a conferma di una mondializzazione finanziaria che non risparmia il calcio, così come gli altri sport del resto, e ne fa un mezzo di potere riducendolo a bene di consumo (sempre più scadente) privo dei connotati dell’appartenenza e del comunitarismo che una volta erano ben visibili.

È infatti lontano il tempo in cui il mecenatismo calcistico era una sorta di esplicitazione del sentimento di aderenza ad un aggregato popolare che manifestava chi aveva la capacità di spendere i soldi in eccesso per soddisfare la propria passione coincidente con quella collettiva. Adesso, osservava sempre Dimitrijevic, la faccenda si è fatta “pericolosa”. I calciatori, infatti, “sono ossessionati” dalla posta in gioco e dalla paura di sbagliare. La non marginale circostanza che guadagnino cifre enormi, al di là di qualsiasi logica, li condiziona più del dovuto facendogli perdere quella levità quasi fanciullesca che ha caratterizzato la pratica del football fino agli inizi degli anni Novanta del Novecento quando si assisteva sbalorditi a “colpi di mercato” eccezionali. Eccezionali e perciò rari, inconsueti, tali da entrare nella leggenda come l’acquisto dello svedese Hasse Jeppson da parte del Napoli, nel 1952, quando Achille Lauro (con soldi suoi) lo pagò centocinque milioni di lire; una volta che venne atterrato in area di rigore i tifosi dalla tribuna esclamarono: “È caduto ‘u Banco ‘e Napule!”.

Altri tempi, altre storie come quella che portò sempre a Napoli, per l’astronomica cifra di tredici miliardi di lire, l’immenso ed indimenticabile Diego Armando Maradona. Era il 1984. Poco dopo il calcio avrebbe perduto la sua innocenza. Quando le società sportive hanno immaginato di realizzare affari senza limiti fino a quotarsi in Borsa, il calcio è diventato un’altra cosa.

Nella geopolitica calcistica c’è sempre meno spazio per le forti e coese squadre-comunità (vedi l’Athletic Bilbao); la fantasia, l’inventiva, la libertà di gioco, come è stato chiaro negli ultimi tre Mondiali, sono imbrigliate dalla paura perché gli interessi in campo non ruotano intorno ad un pallone da far girare, ma piuttosto ad un pallone da far sparire, nel senso che se per i tifosi ciò che vale è il gioco, nei sottoscala degli stadi sono ben altri gli interessi intorno ai quali si disputano le partite.

Napoli appartiene alla categoria del divertimento ponderato, dell’attaccamento alla maglia, della “religione” dell’appartenenza. E perciò vince. E quando non vince non se la prende con nessuno perché conosce i disegno degli dèi del calcio. Ieri i loro occhi si sono posati su quella squadra di orgogliosi ragazzi che ci fanno ridere e ci commuovono, con un colpo di testa di Osimhen, con una serpentina di Karavatkhelia, con l’agonismo di Lobotka, con le mani volanti di Meret, con il roccioso Di Lorenzo, con l’implacabile Kim. Una squadra. Sulla quale vogliamo credere con la fantasia di vecchi ragazzi quali siamo e seguiamo il Napoli da bambini, da oltre sessant’anni, abbia vegliato Maradona che da solo era la “squadra” più di trent’anni fa. Questa, non ha un leader assoluto in grado di vincere le partite con un fuoriclasse, ma è un team di teste pensanti e piedi buoni. Ecco perché si esaltano tutti insieme nel trionfo che va ascritto a tutti, nessuno escluso, presi per mano da Spalletti e portati nell’Olimpo del calcio dove ancora si celebrano fasti che uniscono il popolo in un grande abbraccio.


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